Camden Town, in un pomeriggio primaverile con un sole che, invece di essere a Londra, ti sembra di essere in “sunny Italy” (dove mi dicono invece piova a dirotto).
Centinaia di persone affollano le strade, specie in vicinanza dello storico mercatino all’aperto. Noi, caracollando di pub in pub, ci stiamo invece avvicinando alla leggendaria Roundhouse, uno dei locali che hanno fatto la storia del rock: qui, nel 1968, suonarono i Doors di Jim Morrison. E poi praticamente tutti, dai Jefferson Airplane agli Who a Jimi Hendrix. Le vecchie mura trasudano vibrazioni di quella che fu la “golden age” del rock’n’roll. E stasera, a esibirsi, non c’è Jim Morrison o Jimi Hendrix che hanno lasciato questo mondo troppo presto, ma uno dei sopravvissuti di quell’epoca d’oro, il quasi 68enne Bob Dylan. E che siamo a Londra, a vedere un concerto rock, lo si capisce quando andiamo a sederci nella zona a noi riservata, nel “second circle”, sopra la platea che in piedi si accalca sotto al palco (circa 1800 spettatori, sold out immediato quando lo show fu annunciato un mese fa e biglietti in vendita su e-bay a oltre 300 sterline).
Nella fila davanti alla mia, due poltroncine più a destra, si sta sedendo Bill Wyman, l’ex bassista dei Rolling Stones che con Keith Richards, Mick Jagger e Brian Jones diede inizio all’avventura della più grande rock’n’roll band della storia, nel lontano 1962. Nonostante gli ormai 70 anni, è sempre uguale a se stesso, immancabile taglio di capelli con la frangetta pure. E qualche poltroncina più in là, sulla sinistra, viene a sedersi Roger Daltrey, il cantante degli Who. Capello corto e fisico robusto, sembra uscire da una spiaggia californiana piuttosto che – anche lui – da 40 anni di rock’n’roll lifestyle. E pensare che cantava, «spero di morire prima di diventare vecchio». I due si salutano, chiacchierano tranquillamente per diversi minuti e nessuno li disturba, chiede autografi o fotografie: insomma, i londinesi con le rock star ci sono nati e vissuti.
Il nuovo disco di Bob Dylan, “Together Through Life”, esce proprio in questi giorni; ieri sera il cantautore si è esibito nell’ampia 02 Arena, davanti a circa 20mila spettatori, e oggi siamo tutti in speranzosa attesa che ci presenti qualche canzone nuova. O almeno qualche sorpresa: qualche anno fa, sempre a Londra, tirò fuori una sorprendente London Calling, tributo ai Clash, ad esempio. Invece niente: nel suo modo sprezzante (uno scrittore americano una volta disse: «Mick Jagger vuole essere adorato dal suo pubblico; Bruce Springsteen vuole essere amato; a Bob Dylan, del pubblico, non frega niente») e alquanto irritante, Dylan ha ignorato disco nuovo e qualunque sorpresa per esibirsi in un concerto come tanti dei suoi, similare ad esempio a quello a cui avevamo assistito a Milano dieci giorni prima. Una cavalcata tra classici del suo repertorio e pezzi dell’ultima produzione (il disco “Love and Theft”, del 2001, è stato saccheggiato, con ben sei canzoni tratte da esso). E come a Milano e come sempre negli ultimi anni, la band che lo accompagna si è limitata al compitino di “affiancamento”, senza alcuna spinta emotiva in grado di elevare lo show dalla pura routine a cui sembra che il songwriter americano, complice l’età, si sia abituato.
Show che era cominciato bene, con una rovente Leopard Skin Pill Box Hat (dal capolavoro “Blonde on Blonde”, 1966) seguita da una intensa e folk Don’t Think Twice, Its Alright (da “Freewheelin’”, 1963) ma che poi si è incamminato nella ovvietà, con stentoree versioni di Tangled Up in Blue (“Blood on the Tracks”, 1974) e, nel finale, di Blowin’ in the Wind. Certo, ascoltare Like a Rolling Stone con uno dei Rolling Stones seduto vicino a te procura qualche emozione. E anche lui, il piccolo Bill Wyman, ha avuto un sussulto: quelli erano bei tempi, sembrava dire mentre ciondolava il corpo al ritmo immortale della più grande canzone di tutti i tempi.



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