La cornice è delle più affascinanti. Dietro al grande palco c’è infatti la Villa Reale di Venaria, Torino, fresca di un restauro memorabile, definita “la Versailles italiana”. Anche il cielo ci mette del suo per rendere tutto ancor più affascinante, una grande luna piena che si alza gentile alla destra del palco nel corso della serata. Verso la fine del concerto se ne accorge anche lui, l’artista sul palco. Lo fa alla sua maniera, ovvio, che Nick Cave non è uno dai modi gentili, ma uno che guarda al reale. Ci invita ad alzare lo sguardo in alto, verso “that big yellow fuckin’ moon”. È l’ora di farlo, di guardare in alto, perché il suo concerto, come sempre con lui ma ancor di più adesso che i suoi Bad Seeds, la sua storica band ancorché orfana di uno dei suoi massimi esponenti, il polistrumentista Mick Harvey che l’ha lasciata da poco, sono diventati dei veri “Grindermen” – dal nome del suo progetto alternativo, quello punk garage, i Grinderman – è stato un vero viaggio all’inferno.
La musica dell’australiano trascende oggi il concetto di punk: è di più, molto di più. È abrasiva e violenta come il calore bianco, quel “white noise” evocato quarant’anni fa dai Velvet Underground ma che solo Nick Cave ha saputo prendere in mano e rigettare su un pubblico. È musica cacofonica, oscena e infernale, ma al cuore c’è il grande fondamento del rock: il blues, che appunto è sempre stato la musica del demonio. In questo senso, il brano Dig Lazarus Dig esplode in faccia al pubblico con fragore quasi impossibile da sostenere: i musicisti sul palco (due batterie, tastiere, chitarra elettrica e un violinista pazzo che sembra la reincarnazione rock di Paganini), assieme al cantante, danzano in dimensioni conosciute solo a loro. Ma è una canzone che parla comunque di redenzione possibile, di rinascita, perché Nick Cave, per quanto possa cantare che l’inferno esiste, che il diavolo è una presenza reale – e ha ragione – sa anche che la salvezza è altrettanto reale.
Se Staggerlee, l’antica canzone con cui i bluesmen della fine dell’Ottocento evocavano proprio il diavolo, con un palco interamente illuminato di incandescenti luci rosse è un viaggio senza ritorno all’inferno, Get Ready For Love, un gospel punk dal ritmo in elevare a cui è impossibile resistere, siete pronti per l’amore, è allora l’ultimo brano in scaletta. L’amore che Cave canta è solo quello con la A maiuscola. In mezzo, classici alternativi di lungo corso come Deanna, Papa Wont Leave You Henry, Tupelo, The Weeping Song (“Una canzone per piangere”, dice, che questa sera perde la sua trascendente bellezza per essere anch’essa un assalto cacofonico).
Un concerto di Nick Cave è oggi una delle ultime testimonianze di cosa volesse dire, un tempo, “un concerto rock”. Senza trucchi e coreografie. La musica e l’artista nudi sul palco e tanto doveva bastare. Quando un artista saliva sul palco come se fosse l’ultima notte della sua vita, per mettere paura, sfidare, provocare e offrire allo stesso tempo consolazione e redenzione (quando torna sul palco per l’’ultimo bis, Cave abbozza un brano in stile crooner di chissà chi, una di quelle canzoni da cantare al pub fra amici quando si è rimasti soli, per stringersi e confortarsi; stona in modo evidente, ma sorride comunque e alza le spalle, perché è comunque bello cantare fra amici).
Per far ciò, bisogna portare un gran rispetto verso la musica e soprattutto avere un cuore affamato. Nick Cave, a 50 anni e 30 di carriera, ha ancora il cuore tutto intero.