È quasi una prova pubblica, è quasi un concerto segreto. È la “data zero” della nuova serie di concerti che Francesco De Gregori terrà su e giù per l’Italia nei prossimi mesi.
Nessun disco nuovo da promuovere, come fanno tutti i suoi colleghi, nessuna ansia da prestazione e l’obbligo di riempire uno stadio o chissà quale arena dei tempi antichi. Solo il gusto di suonare e di incontrare la gente.
A Crema, nella splendida cornice di un piccolo spazio all’aperto (un migliaio di spettatori, tutto esaurito) ricavato tra le mura di un antico convento medievale, a misura d’uomo, dove la musica si può ascoltare veramente e vivere veramente, senza resse, si esibisce il cantautore romano.
La sorpresa è vederlo iniziare in completa solitudine, come non accadeva da decenni, seduto su un seggiolino, la chitarra e l’armonica al collo. Come ai tempi del Folk Studio, lì a Trastevere, dove a fine anni Sessanta cominciò la sua avventura. In sequenza Caterina, La casa di Hilde (dal suo primissimo album, quello di Alice, 1973), Pezzi di vetro, Vai in Africa, Celestino e Generale.
Non ci sono altri in Italia che possono tenere così la scena da soli, davanti a mille persone, con carisma e autorevolezza e canzoni così belle che non hanno bisogno di trucchi e rivestimenti sonori. Solo il Fabrizio De André che oggi non c’è più poteva fare altrettanto.
Nella loro nudità, le canzoni di De Gregori mostrano tutta la forza compositiva, l’incanto di una poesia sonora senza paragoni. Poi arrivano “i musicanti”, e il consueto sound elegante, tra blues, rock e spruzzate di folk nord americano si impossessa della notte di Crema.
Come grida uno spettatore a un certo punto, “Suonale tutte, Francesco!”; il suo songbook è talmente vasto che può permettersi di scegliere qua e là perle antiche (Atlantide, da “Buffalo Bill”, 1976) o nascoste (Deriva, da “Amore nel pomeriggio”, 2001) o classici senza tempo (Rimmel).
Cantautore? Musicista diremmo, e il modo in cui rende l’inno alternativo Viva l’Italia un delicato valzer pieno di commozione – togliendo la patina di retorica che lo avvolgeva – dimostra tutta la sua capacità di vivere la musica come cosa viva, da plasmare e rinnovare secondo gli umori.
Se la band scalda i motori del rock con una ruggente L’agnello di Dio, lui risponde sedendosi al pianoforte e rilasciando una toccante Sempre per sempre seguita da La storia.
Poi, in piedi davanti al microfono, le mani in tasca, la canzone che è manifesto di un modo di intendere questo lavoro come passione per l’incontro, quello con chi ti siede di fronte: La valigia dell’attore è davvero una delle più belle canzoni della musica italiana di ogni epoca, così come La leva calcistica del ’68.
Salutando tutti con una deliziosa, a tratti irriverente, a tratti con il cuore in mano, Buonanotte fiorellino.