Con gli applausi del Teatro Mancinelli al Trio di Roma e alla Enrico Rava PM Jazz Lab si chiude la diciassettesima edizione di Umbria Jazz Winter. Cinque giorni di grande musica a quasi tutte le ore nei luoghi più suggestivi di Orvieto: dal Duomo alle sale di Palazzo del Popolo, dal Museo Emilio Greco ai piccoli club dove ascoltare jazz ‘round midnight.
Alberghi esauriti, sale piene, code in biglietteria (sempre meglio giocare d’anticipo e acquistare on line), la città in questi giorni di vacanze natalizie si presentava così, con i suoi vicoli stracolmi di persone al seguito della Street Parade dei Funk Off o alla ricerca affannata del luogo di un nuovo concerto.
Uscendo dal Teatro tutto sembra già tornato alla normalità, è il momento buono per tirare le somme, soprattutto se si è in compagnia di Franco Fayenz, firma storica della critica jazz, che, con la sua consueta gentilezza e ironia ha ripercorso per ilsussidiario.net i momenti salienti del festival.



Questa edizione ha dato spazio ai grandi chitarristi, chiudendo stasera nel segno del jazz italiano. Proviamo a fare un bilancio?

Devo dire, innanzitutto, che questa edizione è stata nettamente migliore di quella precedente. L’anno scorso l’errore di fondo fu quello di costruire il festival basandosi su un artista tanto grande quanto inaffidabile, come João Gilberto. Al di là delle scuse, all’ultimo preferì rimanere al caldo in Brasile piuttosto che mettersi in viaggio per Orvieto. Per fortuna in quei giorni Stefano Bollani era disponibile, divenne il “one man festival” e salvò la situazione.
Quest’anno, consapevolmente o meno, si sono premuniti con diversi gruppi in residenza, ben scelti e di assoluto valore.

I concerti che hanno lasciato il segno?



I momenti più belli ce li hanno regalati Jim Hall e Bill Frisell in duo. Non per sminuire Joey Baron alla batteria e Scott Colley al contrabbasso, ma quei due da soli hanno raggiunto vertici straordinari. Mi hanno fatto ricordare un concerto dello stesso Jim Hall al Museo Emilio Greco, qui a Orvieto. Uno di quei posti in cui capisci quanto sia misteriosa l’acustica. Ancora non mi spiego come possa essere così perfetta, con tutte quelle statue. Ad ogni modo, quella volta gli consigliai di suonare una delle sue composizioni più belle, Down from Antigua. La eseguì sussurrando. Ieri invece mi sono segnato una splendida Throughout, Monica Jane e Bag’s Groove del Modern Jazz Quartet.
Certo, spiace vederlo in queste condizioni fisiche, non me lo sarei aspettato. Jim per prendermi in giro mi diceva sempre: “Ti porto rispetto, perché sei più vecchio di 15 giorni”. Il che è vero, ma adesso non si direbbe.

La formula del duo è stata particolarmente felice soprattutto con John Clayton e John Patitucci al contrabbasso e quando lo stesso Clayton ha suonato con il figlio Gerald al pianoforte…



Assolutamente. Quello di John Clayton con il figlio pianista è stato un grande concerto. Sono molto affiatati, li ho voluti sentire più volte.
Clayton-Patitucci: niente da dire, bravissimi, ma non da diventarci matto. Due contrabbassi insieme sono comunque una formazione particolare.

L’intramontabile Sellani, purtroppo quest’anno senza il grande amico Gianni Basso, ha tenuto quasi due concerti al giorno…

Sì, ho ascoltato il suo trio per la milionesima volta ed è ancora di grande livello. Devo dirgli però che è ora di smetterla…
Scherzi a parte, c’è un difetto nell’organizzazione dei festival in Italia, raramente si va oltre i soliti nomi: Sellani, Fresu, Bollani, Rava, che sta vivendo la sua terza giovinezza…

Note dolenti?

Non amo parlare di quello che non mi piace, quindi non mi chieda dei gospel o di Monty Alexander. Una cosa però la dico, ascoltavo Kurt Elling e mi domandavo: perché i cantanti bianchi non riescono ancora a liberarsi dall’influenza di Frank Sinatra (vedasi Michael Bublé & Co.)? Sarebbe ora di fare qualcosa di diverso.

Un giudizio a parte sul concerto finale che si è appena concluso: il Trio di Roma con Danilo Rea, Enzo Pietropaoli e Roberto Gatto e la PM Jazz Lab di Enrico Rava a chiudere con Gershwin…

Ho ascoltato con grande piacere il Trio di Roma, in pratica i Doctor 3, con la sostituzione alla batteria di Fabrizio Sferra con Roberto Gatto. Si conoscono a memoria e sono così esperti che non potevano fallire un appuntamento come questo.
Seconda parte… tutti ottimi musicisti: Rava, Gianluigi Trovesi, Gianluca Petrella. Singolarmente si sa quanto valgano. Gli arrangiamenti e l’insieme però non mi sono piaciuti per niente, troppa confusione.

 


Prima sottolineava l’esigenza di un ricambio, ma come trova i jazzisti dell’ultima generazione? Sono “prodotti da Conservatorio” con molta tecnica e poco cuore come sostiene qualcuno?

Guardi, sono entrato in questo mondo iniziando a dirigere una società di concerti e proveniendo dalla musica classica. L’autodidatta lo riconosco, dai nuovi musicisti pretendo una formazione completa, il jazz poi va scelto per una ragione profonda. E pensare che i grandi pianisti americani di una volta erano dei complessati perché volevano essere grandi concertisti, ma questo non era possibile. Gente come Art tatum  e Fats Waller, pianisti straordinari.
Organizzando concerti ebbi l’occasione di parlare con Arturo Benedetti Michelangeli e Vladimir Horowitz e le posso assicurare che consideravano Art Tatum un vero gigante.

Un disco dell’anno che ci siamo appena lasciati alle spalle che l’ha colpita particolarmente?

Purtroppo abbiamo avuto la terribile perdita di Esbjörn Svensson. Uno dei migliori dischi era proprio quello del trio E.S.T. L’ultimo di Stefano Bollani, grande pianista, che però non riesco a sopportare quando è su un palcoscenico… gli preferisco Stefano Battaglia.
Un consiglio d’oro però: non dimenticare mai i dischi di Enrico Pieranunzi. In America dopo un suo concerto mi dissero: “Beati voi che in Italia avete il miglior pianista del mondo”.

I jazz festival sono sempre più apprezzati dal pubblico e si moltiplicano a vista d’occhio. Umbria Jazz Winter quest’anno ha avuto il 25% di spettatori in più rispetto al record dello scorso anno. Segnali positivi o potrebbe anche essere soltanto il segno di una moda di passaggio?

Il jazz non è mai stato di moda. Forse con i mezzi di comunicazione di oggi si ascolta un po’ di più. Le dico un’altra cosa, senza voler rimpiangere il passato: il “jazz jazz”, come lo chiamano argutamente i francesi, sicuramente ha cambiato di casa, non sta più in America, ma in Europa. Forse però se ne è proprio andato. 

(Carlo Melato)