Tra le opere del grande repertorio lirico Carmen occupa per molti versi un posto particolare. Il dramma che Meilhac e Halévy trassero da una novella di Prosper Mérimée trovò in Bizet un musicista capace di intuire le profondità tragiche che si celavano sotto la superficie della pièce di genere (in questo caso la classica vicenda di amore e morte).
Sì perché Carmen, a dispetto delle superficiali letture pseudoveristiche che per anni l’hanno oberata, ha uno statuto teatrale e musicale che l’avvicina alla tragedia antica. La potenza primordiale di un Fato ineluttabile (tale è l’amore per la protagonista fin dal suo programmatico e celeberrimo esordio con l’Habanera) “gioca” qui, come nell’Edipo re di Sofocle, con i personaggi che, spinti da una forza assai simile alla “Volontà” cosmica di cui parlava Schopenauer, sono coscienti di essere “manovrati” e nondimeno bramano una libertà che è, nello schema interpretativo fornitoci dal dramma, praticamente impossibile se non in un estremo gesto di rinuncia alla vita, nel consegnarsi al conturbante mistero della morte.
Forse è questo che oscuramente intuì anche Nietzsche che elesse Carmen a sua opera favorita dopo aver abbandonato (e con quale sdegno polemico!) la cerchia wagneriana.
In questa chiave lo spettacolo cui abbiamo assistito domenica 10 ottobre al Teatro Sociale di Rovigo appare ambivalente.
Fin dall’apertura del sipario ci si domanda il perché della (pur bella) ambientazione scenografica. I quattro atti dell’opera sono infatti interamente giocati in un anfiteatro ricavato tra le alte pareti di una forra montana (luogo della mente ai limiti del nulla e del deserto, secondo quanto suggeriscono le note di Ivan Stefanutti che firma regia, scene e costumi) che, al di là delle suggestioni sapientemente create con efficaci giochi di luce, rende angusto lo spazio disponibile per il nutrito cast vocale e incongrue molte delle scene: non v’è piazza di Siviglia né osteria di Lilas Pastia né tantomeno la Plaza de toros del quarto atto. Non parliamo poi della plausibilità di una manifattura di tabacchi collocata in un improbabile valico pirenaico.
È la magia del teatro si dirà, e in parte tale affermazione trova giustificazione quando approcciamo l’altro lato (quello specificamente registico) del lavoro di Stefanutti. Il taglio dei movimenti scenici (essenziali ed efficaci in molti punti) e la disposizione delle masse è pregevole e, al di là di qualche incomprensibile virata omosessuale di Carmen che nel primo atto sembra attratta indistintamente da individui di entrambi i sessi, il lavoro di decodifica del testo è sicuramente centrato, aderente alla partitura e ben condotto.
Sotto il profilo musicale l’Orchestra Regionale “Filarmonia Veneta” ha dato buona prova di sé come pure i cori (il Coro Lirico Veneto della LI.VE. e il Coro di voci bianche Piccoli cantori di San Bortolo) ben preparati da Giorgio Mazzuccato.
Qualche perplessità ha destato la direzione di Francesco Rosa, soprattutto in merito a scelte interpretative talvolta un po’generiche e, a nostro avviso, non sempre centrate sotto il profilo drammaturgico.
In particolare nel primo atto, il cui canovaccio musicale si intreccia irregolarmente, la direzione è parsa non perfettamente a fuoco anche se non si sono rilevate sbavature o scollamenti tra buca e palco. È pur vero che Rosa ha saputo accompagnare al meglio i cantanti tenendo sempre compatta la materia musicale con una gestualità chiara ed efficace.
Punta di diamante della produzione sono stati certamente i protagonisti vocali che hanno contribuito in maniera determinante al grande successo della serata.
La Carmen di Veronica Simeoni è cresciuta e si è definita sempre più nel corso dei quattro atti raggiungendo punti di assoluta compenetrazione tra musica e dramma come nella sublime Aria “della carte” (esecuzione da mozzare il fiato) quando la mezzosoprano si è trasfigurata in un personaggio da tragedia antica, Elettra o Antigone moderna che contempla il dischiudersi degli arcani del futuro con i loro infausti presagi di morte.
Carmen ci è apparsa in un certo senso purificata da quelle incrostazioni generiche e banali (da femme fatale di quart’ordine) che ancora infestano certe letture del personaggio. L’ironia scanzonata, accanto alla tragica accettazione di un destino di libertà e di morte, è stata la chiave di lettura del personaggio scelta dalla Simeoni, una lettura che ha pienamente convinto anche in virtù delle straordinarie doti vocali e teatrali della giovane artista.
Non da meno è stato Andrea Caré che, nei panni di Don José, ha fornito una prova davvero maiuscola sia vocalmente che scenicamente. Il giovane brigadiere di Bizet assume, nella lettura di Caré, i connotati di un individuo consapevole dell’ambivalenza e dei pericoli che la travolgente, fatale attrazione per Carmen comporta. Indimenticabile la resa dell’aria del secondo atto (La fleur que tu m’avais jetée) come pure il finale dell’opera in cui abbiamo assistito a un momento altissimo di teatro e di compenetrazione drammatica tra artisti e personaggi.
La Micaela di Valentina Corradetti è stata efficace e vocalmente solida, anche se non abbiamo potuto condividere l’utilizzo (francamente eccessivo) di mezze voci e filati collocati anche là dove la partitura e il dramma non lo avrebbero consentito.
Unico neo nell’ottimo cast ci è parso l’Escamillo di Nmon Ford, cantante dalla voce potente ma dotato di un gusto quantomeno discutibile. La sua resa del celebre toreador è stata a nostro avviso priva di uno spessore teatrale non generico. Escamillo dovrebbe evidentemente essere qualcosa di più e di diverso da un seduttore da strapazzo.
Buona anche la prova di Natalia Roman (Frasquita) ed Annalisa Stroppa (Mercedes) sempre all’altezza del compito, come pure quella di Gabriele Nani (Dancairo), Max René Casotti (Remendado) e Donato Di Gioia (Morales) efficaci sia vocalmente che scenicamente. Un particolare plauso merita anche lo Zuniga di Gianfranco Montresor.
Pubblico numeroso e applausi convinti e prolungati all’intero cast e al direttore.