È l’ultimo pezzo in scaletta, Terrible Love, che è anche quello che apre l’ultimo disco dei National, “High Violet”. Matt Berninger, carismatico e allampanato cantante del gruppo decide di scendere dal palco su cui si sta esibendo da circa un’ora e mezza. Attenzione, non si getta sul pubblico, come si usa fare a tanti concerti rock, per farsi trasportare sulle braccia in quello stage diving che fa tanto rock’n’roll. No, lui, impassibile come lo è stato per tutto il concerto, continuando a cantare attraversa semplicemente il pubblico, dividendolo in due un po’ come Mosè divideva in due le acque del Mar Rosso.
La cosa incredibile è che i circa tremila presenti all’Alcatraz di Milano dove i National si sono esibiti per l’unica data italiana, lo lasciano passare, nessuno che lo strattoni, cerchi di baciarlo o quant’altro. Solo, centinaia di braccia che impugnano telefoni cellulari e fotocamere che fissano il passaggio. Un solo addetto alla security che fende la folla davanti, un cavo microfono forse il più lungo della storia del rock, e Matt Berigner continua a cantare le lancinanti note di Terribile Love, “it’s a terrible love that we are walking with spiders”, imboccando l’uscita del locale e lasciando i suoi National a concludere il pezzo.
È un momento bizzarro, è un momento epico, è un momento che si fissa al termine di una serata memorabile, quella in cui i National, gruppo indie rock proveniente dalla sperduta Cincinnati nel piccolo stato dell’Ohio (ma da tempo residenti a Brooklyn) hanno dimostrato che nella storia del rock per questa musica è sempre possibile catarsi e rinascita, epicità e melodramma, sentimento e cuore.
Solo, ci vogliono le persone giuste perché questo accada, e i National sono queste persone giuste al momento giusto. Loro potrebbero essere la prima autentica band della generazione dot com, la generazione Internet. I National sono la prima vera rock band nata dall’accelerazione tecnologica virtuale dell’era di Internet. Non tanto perché usino particolari diavolerie computerizzate – tutt’altro -, ma intanto perché quasi tutti loro prima che la musica diventasse loro unico sostentamento (e questo è accaduto solo da pochissimo) lavoravano tutti nel mondo virtuale della Rete.
Poi perché il loro successo è nato proprio da un passaparola della Rete, facendo andare definitivamente in cortocircuito le strategie marketing delle grandi multinazionali del disco, e infine perché i loro fan appartengono in modo indelebile al mondo del web. Fate un giro sui blog, sui tumblr, sui social network, e troverete frasi tratte dalle canzoni dei National come se fosse la Bibbia. Una manciata di dischi dietro le spalle fino al recente “High Violet”, esplosione di un modo di fare musica che pesca tanto nel post punk di Joy Division e Depeche Mode quanto nella classicità rock più pura, dai Velvet Underground a Bruce Springsteen, NeilYoung e Bob Dylan.
Una classicità rock sottolineata dalla canzone scelta per il loro ingresso sul palco, una delle pagine più oscure ma più affascinanti di Neil Young, On the Beach. E poi i testi, canzoni che descrivono perfettamente il malessere, la solitudine, la precarietà d’amore della generazione dot com, ben descritta in film come "Eternal sunshine of the spotless mind" (in italiano “Se mi lasci ti cancello”), ad esempio, ma che pesca anche nel Douglas Coupland, lo scrittore di Generazione X.
Coupland, quello che annunciava una generazione a cui hanno tolto il concetto di Dio: i National scavano a fondo per ritrovare questo concetto, ad esempio nella formidabile potenza sonica di England, dove immagini di vetrate di antiche cattedrali gotiche si spandono sul fondo del palco dietro di loro: “Famous angels never come through England, England gets the ones you never need, I’m in a Los Angeles cathedral, Minor singing airheads sing for me”.
C’è un senso di malinconia e dissociazione spirituale in canzoni che non a caso in uno dei loro primi dischi avevano radunato sotto il titolo di “Sad Songs for Dirty Lovers”, canzoni tristi per amanti sporchi, ma questa dissociazione del cuore viene sostenuta da una ritmica potente e incalzante, che è quella che caratterizza questa band, dove le chitarre sono solo funzionali a creare crescendo orchestrali, senza mai tentare la strada dell’assolo, in ciò ricordando la lezione anni 80 degli U2. Creando così una unità sonica che ricuce ogni ferita del cuore. Nella loro unica tappa italiana (aperta dal bravissimo Phosphorescent, cantautore proveniente dalla Athens dei REM, ma innamorato della California, che suona – tanto per rimanere in tema – come il Neil Young degli anni 70) i National dedicano ovviamente ampio spazio all’ultimo disco, aprendo al serata con Runaway seguita dalla fascinosissima Anyone’s Ghost.
Dal passato pescano gemme come Apartment Story, 29 Years dal disco d’esordio del 2001, e ancora Fake Empire e la drammatica e potentissima Mr. November, brano perfetto da cantare in una sera di novembre. Non potente e non drammatica però come Abel, un pezzo che stava su “Alligator” del 2005 e che suona come momento di catarsi sonica totale al calore bianco: “Abel, come on, give me a reason, I am not as bright as I could be, Abel, come on, take me with you, Everything has all gone down wrong”, Abele avanti dammi una ragione, non sono sereno come dovrei essere, Abele, Avanti portami con te, ogni cosa è andata nel verso sbagliato.
E ancora, da “High Violet”, la claustrofobica Afraid of Everyone, la bellissima Sorrow con i suoi crescendo chitarristici fino alla conclusone della già citata Terrible Love. Se la band suona compatta e trascinante specie come detto grazie a una sezione ritmica come poche nella scena musicale d’oggi, che si può dire della vocalità di Matt. Baritono: vocalità scura, poco dotato come estensione, Matt è capace di passare dal torpore di un Leonard Cohen all’urlo rabbioso di Kurt Cobain. Un urlo che non lascia tranquilli, un concerto che manda a casa inquieti, come sempre la grande musica rock dovrebbe fare.