C’era una volta il rock and roll: voce, corpo, sudore, sangue, chitarre, basso e batteria. Alla fine degli anni Settanta, e per tutto il decennio successivo, l’ultimo grido sincero lo lanciarono i Police di Sting, ma erano altri tempi.

Adesso Sting è un solista raffinatissimo che passa da John Dowland alla musica etnica, a qualche fugace e scocciata reunion coi suoi vecchi compagni. Oggi non è più capace (o forse non ne ha più voglia) di scrivere del solido rock and roll.



Così il bellissimo concerto con cui Sting in compagnia della Royal Philharmonic Concert Orchestra diretta da Steven Mercurio sta completando il suo giro fra America ed Europa (chiusura ufficiale il 10 novembre a Roma, Santa Cecilia) è solo meravigliosa accademia.

Intendiamoci, niente di male nell’accademia, nel manierismo, nell’estremo distillato di quella che è stata una grandissima stagione creativa. Ma se per un attimo ci chiediamo a che numero di versioni siamo arrivati di Roxanne, di Mad About You, o di Every Little Thing She Does Is Magic, qualcosa obiettivamente non torna. Parliamo di canzoni che sicuramente hanno fatto la storia del rock, ma è come se il nostro autore ormai non riuscisse più a dar loro un seguito altrettanto fresco e credibile.



Così a 59 anni Gordon Sumner, in arte Sting, è già diventato il migliore esecutore di uno splendido repertorio ormai storico: il suo. Direte: lo fanno tutti, dagli Stones a Dylan, a Paul Mc Cartney. Sì, ma a parte che quelli c’erano già quando Sting sognava a trent’anni di sfondare nel rock and roll senza riuscirci, quelli sono “i” monumenti, i pionieri, sono l’inizio, il passato.

Mentre Sting ci sembrava il seguito, il presente, ed è obbiettivamente qualcosa di innaturale vederlo già fare il monumento a se stesso.
Per farlo ha messo da parte, e ha fatto bene, i ciarpami ormai inutili dell’armamentario rock, che a un passo dalla pensione gli devono sembrare ormai ridicoli. E con l’ormai conquistata proverbiale raffinatezza (è pur sempre il più elegante modello che Armani abbia mai avuto), si dà al sinfonico.

“Symphonicity” si chiamano il disco e il progetto, ed è in sostanza la rilettura efficace, qua e là persino geniale, dei suoi pezzi migliori. Con una piccola band leggera capitanata dal suo fido chitarrista Dominic Miller e con al fianco una corista, Jo Lawry, tutta grazia e appeal (vecchio trucco dello Sting post-Police).

Gli arrangiamenti, curati da tre ottimi professionisti compreso lo stesso Mercurio, sviluppano una bella serata, ricca ed elegante, con molti assolo per le prime parti della Royal (clarinetto e violino in testa) e diversi slanci ritmici che li trasforma in una superband di quasi rockettari.

Fra le tante Englishman in New York, Every breath you take, Every little thing she does is magic, Fields of gold, Fragile, If I ever lose my faith in you, King of pain, Mad about you, Moon over Bourbon Street, Roxanne, Russians, Shape of my heart, She’s too good for me.

Troppo arzigogolate, troppo lontane dalle originali? Tutt’altro, tutte realizzate in un magico equilibrio, con un apparato teatrale splendido, dal disegno di luci raffinato e adulto. Ma l’emozione, che pure arriva, è la replica di emozioni già… emozionate, già vissute, usurate.

Il divo è pacato, misurato, vellutato. Sa cantare e sa farci cantare, applaudire, persino ballare. Ma è come se fosse solo un meraviglioso déja vu. Rinunceremmo di colpo a tutta questa eleganza, a tutta questa furbizia, a tutta questa perfetta musicalità in cambio di un qualsiasi grezzo, elementare, barbarico riff di rock and roll. Noi ce lo ricordiamo, c’eravamo, glielo abbiamo visto fare. Ma forse ora Sting non suda più.