In una sera milanese di dicembre, spazzata da un bizzarro vento tiepido che portava via nuvole cariche di neve e il freddo dalle ossa, si sono materializzati all’Alcatraz, noto locale sede dei migliori momenti rock della capitale lombarda, tre fantasmi, tre rock star, tre personaggi venuti da chissà dove. Non hanno concesso interviste, non hanno voluto incontrare nessuno, sono saliti sul palco e così come vi erano arrivati sono ripartiti nella notte.
Dopo, anche il vento tiepido aveva finito di soffiare e per le strade di Milano rimaneva il buio freddo e un po’ di tristezza metropolitana soltanto. Ma in quelle due ora scarse che qua sono stati, i Fistful of Mercy (di loro abbiamo parlato recentemente su IlSussidiario.net, recensendo il primo disco della super band) hanno portato vibrazioni calde, sussurri antichi, comunione e nostalgia. Insomma, quelle cose che accadono quando la musica fa scintillare il magico e il misterioso di cui essa è espressione.
L’afro americano di California Ben Harper (star amatissima, per cui erano qui quasi tutti gli spettatori presenti, invero non moltissimi), il newyorchese d’adozione Jospeh Arthur, e lui, quello che a cui tutti o quasi rivolgevano gli sguardi curiosi, Dhani, figlio del Beatle George Harrison, hanno riportato di schianto quella capacità acustica e quelle armonie vocali che da sole sanno riempire più di dieci chitarre elettriche e più di batterie pestanti anche l’ampia metratura di un locale come questo. Perché la musica non ha in fondo bisogno di chissacché se parte dal cuore per andare al cuore: da quello di chi la esegue a quello di chi l’ascolta.
A dire il vero, il pubblico si è mostrato piuttosto disattento, forse perché ormai troppo mal abituato da tanti spettacoli che si dichiarano “rock” ma che di rock, cioè dell’essenziale di cui è fatta questa musica, ormai non hanno più niente. E così questo pubblico non sa più cogliere la bellezza quando la bellezza si propone e si impone: meglio parlarci sopra alla bellezza, per non lasciare che essa ti ferisca. In un’epoca di distrazione del cuore, purtroppo tutto questo ci sta.
Chi quella sera del 9 dicembre all’Alcatraz di Milano il cuore invece ha lasciato che si aprisse e si lasciasse ferire, è tornato a casa con una inquietudine in più ma anche con una certezza in più. I tre, i “per un pugno di misericordia” come è il nome del gruppo, hanno proposto per intero il loro unico disco, “As I Call You Down” di fresca pubblicazione: brani che pescano ampiamente nella tradizione folk e gospel nord americana tanto quanto nel pop psichedelico di marca beatlesiana (ovvio, visto che un dei tre viene da cotanto casato paterno).
Divertenti e divertiti, hanno suonato come se ci fossimo trovati nel salotto di casa di uno di loro, scherzando, sbagliando qualche passaggio, ridendoci sopra, insomma portando tutto all’intimità primaria di cui è fatta la musica quando è vissuta come tale e non come stardom, nonostante il divieto di incontrare la stampa. Ma è un divieto che ci sta quando devi “proteggere” uno della band: possiamo solo immaginarci la pletora di domande beote che sarebbero piovute addosso al piccolo Dhani. Che comunque assomiglia fisicamente e vocalmente al padre George in modo impressionante.
Questa voglia di divertirsi dei tre è venuta fuori evidente quando durante un pezzo, approfittando della scansione ritmica dello stesso, si sono lanciati in una divertente ripresa di un brano come Stayin’ Alive dei Bee Gees.
Ma le cover, più serie, non sono poi mancate: da una spumeggiante e briosa Buckets of Rain (Bob Dylan) a una incandescente e rock To Bring You My Love (PJ Harvey) dove i tre si sono sfidati in lunghi assoli reciproci di chitarra elettrica, ricordando le dense atmosfere dei tempi in cui, nel rock, jammare e improvvisare non era un’eccezione, ma la regola. Anche una sorprendente Pale Blue Eyes dei Velvet Underground, che ha pagato tributo ai sogni più misteriosi di una New York (e di una Nico, la dea di quella New York di Andy Warhol che l’aveva cantata per prima) che non esiste più.
Poi ognuno ha proposto uno o due pezzi dal proprio repertorio solista e qui la parte del leone l’ha fatta Ben Harper con una Restore Me che grondava spiritualità e sentimento gospel come se piovesse: sorta di Stevie Wonder della chitarra, Harper è apparso letteralmente “posseduto” dalla musica, lasciando che il corpo si muovesse a una sorta di danza voodoo e le dita sulla chitarra esplodessero riff e assoli dell’altro mondo. Tanto che alla fine Joseph Arthur non ha potuto che commentare così: “Cosa vi sembrerebbe se aveste nella vostra band Jimi Hendrix?”.
Alla fine dello show (accompagnati per tutto il tempo da una brava – e bella – violinista) i tre staccano le spine dalle chitarre allontanano i microfoni e si portano in piedi al bordo del palcoscenico, a pochi centimetri dal pubblico. Richiedono il silenzio e finalmente lo ottengono. Cantando così, senza elettricità alcuna, gente fra la gente, intonano un brano del loro disco che però potrebbe benissimo essere un inno sacro dei padri pellegrini che fecero gli Stati Uniti, o qualche melodia che si alza ancor oggi da una sperduta chiesetta da qualche parte sulle Catskill Mountains, la spina dorsale dell’America.
La canzone, With Whom You Belong, dice così: “Non saprai mai la ragione perché il mare si alza e scende, non saprai mai la ragione se una ragione poi c’è; non saprai mai la ragione perché il sole splende non saprai mai la ragione per cui un giorno ognuno di noi deve morire; trova il tuo modo di scrivere una canzone e venga ciò che venga, io spero che tu trovi amici a cui appartenere, spero che tu possa trovare amici a cui appartenere”.
La nenia va avanti a lungo, quasi i tre non volessero più smettere, invitando il pubblico a unirsi al canto in una sorta di preghiera che in questo tempo pre natalizio ci sta benissimo e che dice tutto ciò che c’è da dire: il mistero per cui accadono le cose e una amicizia a cui appartenere, che altro c’è bisogno di sapere e di avere, nella vita?
In una sera in cui in modo bizzarro nella Milano di dicembre soffiava un vento caldo, all’Alcatraz di Milano sul palco passavano in rassegna i fantasmi di una musica che grazie al cielo trova sempre qualche uomo di buona volontà in cui reincarnarsi e riproporsi. Forse quei fantasmi erano stati portati qui proprio da quel vento che altrimenti non avrebbe avuto ragione di esserci.