Il Don Giovanni mozartiano che nel 2006 il regista tedesco Peter Mussbach aveva portato sul palcoscenico scaligero (e che viene riproposto in questi giorni al pubblico milanese con un cast vocale differente) andava nella direzione opposta rispetto all’allestimento che, sempre alla Scala, curò Giorgio Strehler nel 1987, con le scene di Ezio Frigerio.



L’amore per la rappresentazione realista di architetture, paesaggi, abiti, che, nel celeberrimo allestimento di Strehler, aspirava a ricostruire fin nel dettaglio scenico un Settecento storico, quasi sulla soglia del manierismo, lascia spazio all’astrattezza più rigida dell’allestimento di Mussbach: una scena vuota, dominata unicamente da due enormi monoliti scuri in continuo movimento, a disegnare geometrie prospettiche sempre nuove, colorate unicamente dai cambi di illuminazione che rimangono, tuttavia, quasi sempre entro le tinte del notturno.



Se non fosse per l’ingresso in scena di una Vespa Piaggio, guidata da Donna Elvira, per gli abiti di alcuni personaggi, per lo stile delle danze del primo atto, non si potrebbe intuire la collocazione temporale negli anni Cinquanta. In realtà, questi non sono che dettagli che non riescono a sottrarre l’azione scenica dalla dimensione del puro astratto, entro cui è proiettata.

Probabilmente all’incombere delle severe e oscure forme sceniche manca la capacità di evocare in modo compiuto la componente del tragico, quanto, invece, la gestualità dei personaggi è efficace nel dare espressione alla componente del comico, in quella commistione di generi che rimane una fra le cifre stilistiche più sconcertanti del capolavoro di Mozart che, già dal suo apparire nel 1787, ne fece qualcosa di assolutamente innovativo.



In effetti, è proprio il minuto lavoro sul movimento dei personaggi l’aspetto migliore della regia di Mussbach, meno convincente nelle scene: una gestualità ricca, ma mai eccesiva, spesso eroticamente allusiva, che pone al centro dei rapporti prossemici dei personaggi il corpo di Don Giovanni, messo letteralmente a nudo, a costituire centro di attrazione e repulsione. Sono soprattutto i personaggi femminili a intrattenere nei suoi confronti quell’ambiguo rapporto di odio e amore che rappresenta uno dei punti più sfuggenti dell’opera di Mozart.

La rappresentazione dell’ambiguo è risolta, tuttavia, quasi unicamente sotto l’aspetto dell’eros, inteso come forza di attrazione fra i corpi, in grado di abbattere le restrizioni stabilite dai codici sociali; molto meno sotto l’aspetto della rappresentazione eroica della ribellione verso la norma morale, che dovrebbe conferire al Don Giovanni di Mozart quell’elemento demoniaco cui si deve molto del suo fascino e di cui poche tracce affiorano in questo allestimento.

Il cast vocale è completamente rinnovato rispetto all’edizione del 2006 e si distingue per l’uniformità di livello: non eccelso, ma comunque all’altezza.
Il baritono Erwin Schrott (Don Giovanni), già Escamillo nella Carmen, raramente trova momenti di piena cantabilità, ma dove vi riesce dispiega un timbro pregevole, come nella “serenata” del secondo atto.

Alla Donna Anna di Carmela Remigio forse manca la corda del personaggio tragico, ma la prova è sostenuta comunque bene, ad eccezione di qualche incertezza. Analoghe considerazioni all’insegna della medietas si potrebbero fare per il Don Ottavio di Juan Francisco Gatell la Donna Elvira di Emma Bell, il Leporello di Alex Esposito, la Zerlina di Veronica Cangemi e il Masetto di Mirco Palazzi.

La direzione di Louise Langrée asseconda il ritmo animato della scena, con un piglio a tratti scattante e nervoso, ma che altrove si affloscia un poco (come nell’aria “Fin ch’han dal vino”), rimanendo spesso entro una condotta avara di idee interessanti.

(Marco Targa)