In un weekend che sembrava riportare decisamente indietro nel tempo, Londra è stata testimone della nuova ondata “indie folk” – per usare una delle comode etichette che poi nel campo della musica popolare significano poco o niente – che tanto appassiona i giovani britannici e quelli americani. In Italia, si sa, le passioni musicali arrivano sempre in ritardo, se mai arrivano.
Nel giro di tre giorni si sono infatti prima esibiti per due serate sold out consecutive i Mumford & Sons, ensemble inglese che guarda al folk nord americano con tanto di uso di banjo e di altri strumenti rigorosamente acustici e una carica vocale che potrebbe ricordare i Pogues. Il loro ultimo lavoro “The Cave and the Open Sea” ha goduto del plauso della critica anche italiana.
Guarda anche lui al folk ortodosso nord americano, anche se maggiormente verso quello che ha trovato popolarità grazie alla lezione del Bob Dylan dei primi anni Sessanta, il secondo nome di questo weekend, lo svedese Kristian Matsson, dal nome d’arte curioso (The Tallest Man on Earth, “l’uomo più alto sulla terra”, e in effetti piuttosto alto lo è).
E The Tallest Man On Earth è stato il protagonista della serata del 15 marzo, nella cornice della splendida London Bush Hall, un teatro di stile vittoriano con imponenti lampadari e mura riccamente decorate, dove si sono radunati oltre 500 spettatori, In gran parte giovani universitari, look che rimandava a quello dei loro padri quando avevano la stessa età, e cioè capello mediamente lungo, barbe, jeans consumati, lunghe sciarpe e ragazze dai lunghi capelli e dai vestiti casual.
Che la storia della musica popolare sia fatta di corsi e ricorsi è un dato di fatto, che l’ultima generazione sia degli ascoltatori, ma anche dei musicisti, come dimostrano i nomi citati in queste righe a cui ne bisogna aggiungere molti altri, ad esempio gli americani Fleet Foxes, Midlake, Great Lake Swimmers o Felice Brothers, abbia riscoperto il grande patrimonio folk e quella dimensione intima, raccolta, dove lo strumento principe è la voce, proprio di questa musica, è una cosa che andrebbe probabilmente studiata e analizzata.
Tutti questi gruppi e artisti, Tallest Man compreso, fanno infatti della riflessione, della ricerca spirituale, dell’inquietudine del cuore la loro cifra artistica. E i giovani rispondono, evidentemente attratti da qualcosa che corrisponde al loro, di cuore.
Sul palco, Tallest Man è uno spettacolo nello spettacolo: si muove intorno al microfono a lunghe falcate, piegato sulla sua chitarra acustica, si spinge ai bordi del palco e mentre suona, si avvicina e fissa in volto gli spettatori delle prime file, quasi a costituire una comunione di intenti che reclama la priorità del rapporto artista-ascoltatore come categoria fondante di questa esperienza musicale. Altro che divismo da super star da stadio…
Il cantautore svedese ha presentato gran parte del suo primo album, l’apprezzato “Shallow Grave” uscito nel 2008, cominciando però la serata con un pezzo del nuovo disco, “The Wild Hunt”, che uscirà nei negozi il 13 aprile. Proprio la title track ha dato vita a una serata di intense emozioni in chiave acustica: Tallest Man suona un fingerpicking di grande perizia tecnica, usando accordature complicate e particolarissime, ma usando sempre la stessa chitarra, a parte che in un paio di brani.
Il che lo obbliga a spericolati cambi di accordatura eseguiti al volo, mentre già comincia il pezzo successivo. Nonostante la giovane età, 26 anni, un tasso tecnico degno dei grandi vecchi della musica folk d’autore.
Ha poi eseguito la splendida I Won’t Be Found, il brano che più di altri due anni fa gli diede notorietà, insieme ad altri del primo disco quali Pistol Dreams e Where My Bluebirds Fly. Sono canzoni, le sue, che se da un lato pagano evidente degno alla lezione del giovane Bob Dylan, quello degli esordi (del quale viene brevemente citata la sua Boots of Spanish Leather nel pezzo King of Spain), dall’altra contengono un tasso di purezza melodica e di profondità lirica che ne fanno veramente uno dei migliori talenti giovani oggi in circolazione.
Il concerto è durato poco più di un’ora, senza mai cadute di tono, alternando i brani in fingerpicking a quelli dallo strumming ritmato, durante i quali Tallest Man saltella in lungo e in largo sul palcoscenico pestando forte i piedi sulle assi di legno, a ritmare il tutto in una sorta di danza popolare che richiama alla mente le antiche feste davanti alle case con il porticato che si trovano nella sperduta provincia americana.
Pubblico competente e attentissimo: durante i pezzi più intensi, come la deliziosa A Lion’s Heart, non si sentiva il rumore di un respiro per tutta la hall. Magia antica e moderna, dunque, quella della nuda canzone d’autore, che grazie a personaggi come The Tallest Man on Earth rivive feconda e carica di promesse anche in una epoca dove il rumore e la banalità sembrano vincere su tutto.