Quanto tempo è passato dagli esordi degli Afterhours? Tra poco saranno venticinque anni. Possiamo ancora definire la band milanese di Manuel Agnelli una formazione “alternativa” o “underground”? Assolutamente no. Eppure in Italia le cose vanno in modo strano e questa band è ancora considerata prodotto giovanile, di nicchia, cult. Così va il mondo… L’altra sera a Padova, nel bel mezzo del loro tour “A teatro”, gli Afterhours hanno dimostrato di essere una band potente, colta, stimolante quante poche altre mettendo in scena uno show di musica e poesia, di coscienza e autocoscienza, di grande varietà e imprevedibilità sonora. Cose che riuscivano bene a Velvet Underground e Nick Cave, tanto per dire qualche parente illustre del progetto artistico di Manuel Agnelli, band leader indiscusso di questa formazione.



C’è un rock – chiamiamolo avanguardia, oppure indie, oppure ancora alternativo, tanto le definizioni servono solo ai cronisti o ai critici per dare indirizzi comprensibili – che fa a meno di strofe, ritornelli e di “a-soli”, che preferisce de-strutturare e che non s’apparenta alla lezione di Elvis o dei Beatles. E’ il caso di questi cinque milanesi che vanno in scena alternando musica e citazioni pasoliniane, aprendo le danze con una Tarantella all’inazione (tratto dall’ultimo cd, I” milanesi ammazzano il sabato”, tributo – nel titolo – a un volume del più grande giallista italiano, Giorgio Scerbanenco), cui segue uno dei titoli simbolici della loro produzione, Tutto fa un po’ male, con quel “lo capiremo prima o poi/ che non c’è modo di rinascere/ senza peccare/ ma tu hai voglia di rinascere/ o è solo che non sai come finire?”.



Quando il concerto s’invola, si capisce che questa band è roba adulta sia nelle soluzioni melodiche, che nelle asprezze di certe ripetizioni, che nel formato visivo con l’impaginazione originale per l’acida Musicista contabile, con la band nascosta dietro un sipario su cui si proiettano immagini, proprio come negli show di Lou Reed e compagni, mentre i colori diventano purpurei e quasi splatter in Posso avere il tuo deserto, con l’Agnelli cantante che ulula “E con l’abitudine ti spengon già/ Dando alla violenza una profondità”. In scena ci sono due chitarre, Agnelli e Giorgio Ciccarelli, il violino onnipresente di Rodrigo D’Erasmo, il bassista-cantante Roberto Dell’Era e Giorgio Prette alla batteria.



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Formazione “quasi normale” per una proposta musicale che invece ti sorprende, evitando luoghi comuni, sbattendo in faccia un male di vivere d’antica memoria, finanche eccessivo nel suo nichilismo noir, sbattuto in faccia in Quello che non c’è: “Rivoglio le mie ali nere, il mio mantello/ La chiave della felicità è la disobbedienza in se/ A quello che non c’è/ Perciò io maledico il modo in cui sono fatto/ Il mio modo di morire sano e salvo dove m’attacco/ Il mio modo vigliacco di restare sperando che ci sia/ Quello che non c’è”. Spettacolo di parole poetiche, tra le tante note, come nel momento in cui sale sotto i riflettori Emidio Clementi (bassista e cardine dei Massimo Volume, da anni compagno di progetti di Manuel), che prima cita il "Mucchio Selvaggio" di Sam Peckinpah e poi "L’Ultima tentazione di Cristo" di Scorsese (“C’è qualcosa di eternamente drammatico nella frase di Giuda, perché proprio io Maestro?”).

Lo spettacolo va avanti con Senza finestra, Tu per me sei il vero, Sei fratello nel controllo. Lunghissima, poi, la narrazione delle Piccole iene, dissertazione caustica sul mondo dei giornalisti famelici d’orrido e di sangue da raccontare, che termina in Solo se conviene. Da anni gli Afterhours hanno un seguito di culto anche negli States, per merito del rapporto con Greg Dulli (il nome che c’è dietro il progetto Afghan Wings) e anche della ricchezza complessiva di visioni, parole e suggestione che questo ensemble italiano è riuscito ad esprimere. Insieme al leader (questo, forse è il vero neo: tutto ruota attorno a lui, chitarre, microfoni, pianoforte, parole) ci sono una band che gira ben oliata e un quartetto d’archi (il Gnu Quartet) che si presta a uno spettacolo post-moderno nella struttura davvero accogliente del Gran Teatro di Padova.

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Vasta tensostruttura capace di far sedere comodamente oltre settemila persone: una sfida vinta dal più importante organizzatore del Nord-Est, Zed, che ha trasformato la placida città veneta in un centro di concerti che richiama fin gente dall’Austria e dalla Slovenia, come ha dimostrato il recente show della Dave Matthews Band. IN questa situazione la band ha fatto un figurone indimenticabile, anche se chi cerca in una serata rock l’evasione e il puro divertimento forse potrebbe trovarsi a disagio.

Inutile dire che uno dei pezzi più applauditi è stato Il paese reale, portato recentemente a Sanremo, ed eseguito in concerto con il solo accompagnamento degli archi, sostegno acustico a parole non usuali, dette con autentica veemenza e senza retorica populista (“Dir la verità è un atto d’amore/ fatto per la nostra rabbia che muore”): per fortuna gli Afterhours sono (o sembrano) ancora lontani dal populismo delle parole d’ordine. Concerto che va giù più o meno leggero come una bevuta di whisky o come un libro di Musil, meditando sulle qualità dell’uomo contemporaneo e sulla possibilità – per lui – di un qualche motivo di speranza. Dopodiché si continua a pensare che il rock in Italia sia una cosetta superficiale per giovani-giovani…