Son passati quarant’anni, ma l’influenza di Jimi Hendrix non accenna a scomparire. Certo il mondo del rock e l’immaginario della chitarra è stato trasformato radicalmente per via di questo musicista mancino di Seattle che si è fatto le ossa suonando rock’n’roll nella gavetta di Little Richard ed è poi esploso con la sua band, la Experience, segnando indelebilmente i due più famosi festival della storia, quello di Monterey ’67 e quello di Woodstock ‘69.
Gli anni passati sono tanti, eppure quel suono, quei rock-blues, quell’impatto fisico ed emotivo rimangono punti di vista imprescindibili per tutti coloro che vogliono avere qualcosa a che spartire con il rock. In giro per il mondo, e negli States soprattutto, sono tanti e significativi i contest in cui si sfidano a colpi di Fender emuli e discendenti del grande Jimi ed è stato interessante, alcuni anni fa, vedere un italiano andare al Jimi Hendrix Guitar Festival e portarsi a casa il titolo di miglior hendrixiano del pianeta.
È successo nel 1998 a Tolo Marton, cinquantanovenne chitarrista di Treviso, uno che è in circolazione dal 1971 e che è cresciuto a pane e chitarra elettrica. Alcune sere fa Marton è stato protagonista al Gran Teatro di Padova di una serata rock-blues entusiasmante in compagnia di uno dei più noti batteristi della storia rock, Ian Paice, drummer dei Deep Purple. In trio, con Paolo Steffan al basso, Marton e Paice hanno rispolverato il senso dei tempi andati proponendo rock e blues allo stato brado con un gran sfoggio di pezzi hendrixiani, da Manic Depression a Stone free a una lunghissima Red House.
Marton suona come fosse un’attività connaturata al suo respirare: senza apparente impegno e fatica tutto gli appare immediato, dimostrando d’essere un virtuoso senza dichiararlo nel fluire bluesissimo dei pezzi.
Il momento più intimo ed emozionante è stato il momento meno elettrico e potente: in una pausa acustica (ormai l’angolo unplugged non te lo nega più nessuno) Marton si è presentato da solo di fronte al pubblico, con Paice armato solo di un charleston, con la sola voglia di far del blues immediato: incredibile verve, presa emotiva diretta sul pubblico, feeling da contagio puro.
Emulare o non emulare Hendrix? Tutte banalità. La realtà è che il blues-rock di questo tipo, intendo dell’acoustic corner di Marton e Paice, è il livello base della musica di massa, quello che va bene in un palasport come in un club.
E finito l’angolo acustico, quando non sono le citazioni celebri a far levitare la temperatura, Marton abbandona la via hendrixiana al rock per dar sfoggio delle proprie qualità di scrittura, eccelse soprattutto in Back to my youth e Alpine valley, pezzo lentissimo di intensità emotiva in grado di competere con prodotti claptoniani o dell’amatissimo Stevie Ray Vaughan.
Marton godibilissimo, insomma. E la risposta del pubblico? Ottima: duemila persone entusiaste, un piccolo mondo in tempi di ragazzine isteriche per i Tokio Hotel o di pubblico pseudo colto per Giovanni Allevi. I gusti sono gusti, fa comunque bene vedere un gran seguito per un genere che solitamente in Italia si trova rifugiato nei club di Milano o Roma. E fa un gran bene vedere finalmente Tolo Marton accolto da un pubblico vasto oltre che entusiasta anche in Italia, lui che è stato recensito con complimenti da brivido dai migliori magazine americani e inglesi.
Concerto torrido e soddisfacente per tutti gli amanti di certo rock: per una volta eravamo in Italia ma sembrava di essere in California o in Texas o in Georgia e Sanremo pareva tanto, ma tanto lontano.