“It ain’t what they call rock and roll”, questo non è quello che la gente chiama rock’n’roll. C’è un momento durante un’esecuzione particolarmente scura, rallentata, quasi bluesy di quello che è il suo brano manifesto, Sultans of Swing, in cui Mark Knopfler, sul palco del “Milano Jazzin’ Festival” la sera del 14 luglio, sembra ricomprendere il senso stesso di quelle parole da lui scritte oltre trent’anni fa. Questo non è rock’n’roll.



Improvvisamente la canzone si accende di un’altra vita, le dita di Knopfler scivolano più velocemente sul manico e tra le corde della chitarra esce un assolo che contiene ancor più il sentimento dell’autentico rock’n’roll che diecimila dischi degli Stones, degli AC/DC o dei Led Zeppelin. Sono questi quei momenti per cui un musicista anche a sessant’anni sale ancora su un palco a sfidare se stesso, il pubblico davanti e la sua musica. Sono quei momenti di epifania in cui quel gioco magico, apparentemente semplice, ma altresì pericoloso come una sfida a correre in macchina di notte a fari spenti che è la musica ritrova ogni significato.



È quando non sei più tu a suonare della musica, ma è la musica che suona attraverso di te. Se sei tra il pubblico in quei momenti, sei fortunato. Hai assistito a una testimonianza, non più un semplice concerto. Sei stato connesso con il mondo interiore di quel musicista e in cambio ne hai avuto una epifania per te stesso. È un privilegio, raro, ma che può accadere. Perché la musica è un accadimento, misterioso, continuo. Questa sera al “Milano Jazzin’ Festival” Mark Knopfler di rock’n’roll infatti non ne voleva proprio sentire parlare. 

 

Da tempo, abbandonati i Dire Straits, ha chiuso con quel mondo, andando piuttosto a pescare nelle radici popolari della sua terra, la Scozia, in quel grande abbraccio che è quello tra la musica anglosassone e quello che ne hanno fatto i suoi figli una volta giunti nella promised land, l’America. E poi il blues, il jazz, il western swing del profondo Texas. Sono i contenuti dei bellissimi dischi che Mark Knopfler ha prodotto negli ultimi quindici anni quando ha deciso che per un uomo che cominciava la strada della vecchiaia era più dignitoso, a differenza di certi suoi coetanei che subiscono tutt’oggi la sindrome di Peter Pan – e se a Mick Jagger fischiano le orecchie vuol dire che abbiamo ragione.



Complice anche un brutto mal di schiena (“Ma il mio dottore dice che non è nulla di grave” scherza “basta che non vado in discoteca a ballare”) che lo costringe a esibirsi seduto su una seggiolina, davvero stasera di rock’n’roll non ce n’è traccia. Andati i giorni selvaggi e ballabili dei Dire Straits. Knopfler attacca con una serie di pezzi che profumano di radici folk celtiche, lente ballate giocate tra violini, fisarmonica, chitarre acustiche e qualche nota rilasciata un po’ quasi con fastidio delle sue chitarre elettriche: Border Reiver, l’appena più scanzonata What It Is, una lenta ma straordinariamente appassionata Sailing to Philadelphia, Coyote, Praire Wedding e Hill Farmer’s Blues. È quando rimane da solo con basso, batteria e tastiere e si allontanano gli eccellenti folk musician che erano sul palco, che comincia a riaccadere qualcosa.

 

 

Le note maestose e sempre toccanti di Romeo and Juliet si alzano forti nell’aria calda, caldissima di Milano. La canzone degli amanti si dispiega come una preghiera, e Shakespeare ne sarebbe orgoglioso, stasera. Due colpi secchi di batteria, e ancora stai pensando al balcone di Giulietta a Verona, che partono le note calde e familiari di Sultans of Swing. Una versione, dicevamo, scura, lenta e quasi drammatica. Fino a quando Knopfler ritrova un impeto che lo porta ai giorni giovanili, di quando i Dire Straits sgomitavano in mezzo a centinaia di punk band per trovare un posto, loro che punk non erano. È un assolo straordinario, quello che viene rilasciato, a testimonianza di uno dei maggiori eroi della chitarra di tutti i tempi.

Il breve siparietto Dire Straits termina qui, ma adesso anche a musica folk di cui questi musicisti sanno riprodurre vibrazioni straordinarie, anch’essa suona diversa, più convinta, più appassionata. Done With Bonaparte e Murbletown, in questo senso, sono a dir poco epiche. Ma è durante una lunga versione di Speedway at Nazareth che si assiste al climax della serata:tre chitarre elettriche, con Knopfler a dettare i tempi, giocando a rievocare Eric Clapton e JJ Cale, i suoi grandi maestri di sempre, fino a quando l’intensità diventa tale che mal di schiena o no scende dal seggiolino e si lascia prendere e trascinare dal vorticoso innalzarsi della musica. Un momento di pura trascendenza, ancora, come altri che si sono vissuti questa notte. Pubblico in delirio, ovviamente, in questo "Milano Jazzin’ Festival" che vede l’Arena Civica esaurita in ogni ordine di posti.

 

 

Knopfler si risiede, saluta con affetto, manda qualche bacio. È un finale tutto Dire Straits: Telegraph Road, così cinematografica, una splendida Brothers in Arms, piena di sentimento, con le note lunghe di chitarra che ululano forte, poi lo scherzetto di So Far Away, a chiudere con un sorriso e un ballo nella notte afosa. Il pubblico non ci sta, e Mark Knopfler torna sul palco per un ultimo saluto: Piper to the End, il brano più tradizionale che abbia mai inciso, pura scottish music, come dire: è questo che siamo, è da qui che veniamo e qui ritorneremo.

Una volta Knopfler disse: “La mia idea di paradiso è un posto dove il fiume Tyne si unisce al Delta del Mississippi. Dove la musica folk incontra il blues”. Per un paio d’ore, questa sera, abbiamo avuto anticipazione di questo paradiso a cui guarda la musica di Mark Knopfler.

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