“Hai saputo? L’altra sera a Ravenna si è arrabbiato e non ha concesso il bis”. Il pubblico non parla d’altro, prende posto frettolosamente all’interno del Lazzaretto di Bergamo e sa di avere una grossa responsabilità sull’esito della serata.
“No photo”, “no video”, i cartelli sono appesi ovunque. Ce n’è un altro che invita a non consumare nulla lontano dal bar, mentre chi non riesce a resistere al richiamo delle sigarette viene addirittura invitato a uscire da questo enorme chiostro. “Ma siamo all’aperto!”, si giustifica un signore sulla cinquantina, che poi obbedisce con un sorriso e manda la moglie a prendere i posti. Per i più distratti, nel frattempo, lo speaker ripassa il decalogo del “buon spettatore”.
Tutto pronto, ormai. Pochi minuti alle 21 e qualche posto libero di troppo nelle file migliori. Sul palco, come richiesto, c’è una temperatura esatta di 21 gradi centigradi. Fra poco però non ci salirà né un capo di stato, né un leader religioso, ma Keith Jarrett, accompagnato dai fedelissimi Gary Peacock e Jack DeJohnette. Più che un trio jazz un’istituzione, che in oltre 25 anni di carriera ha regalato agli appassionati e ai colleghi l’inarrivabile reinterpretazione (in studio e dal vivo) dell’immenso repertorio degli standard (e non solo). Al di là dei gusti, un patrimonio con cui è impossibile non fare i conti.
Il pianista di Allentown manca a Bergamo dal 1973. Per il “Festival Contaminazioni Contemporanee” (che il 21 settembre ospiterà l’unica data italiana di Jan Garbarek) difficile pensare a un’apertura migliore. L’occasione spiega la cura del minimo particolare e l’emozione palpabile che si respira in questa serata di luglio. D’altronde, che l’equilibrio dell’artista sia ormai delicatissimo non è più un mistero per nessuno. Un applauso più prolungato del necessario, una nuvola di fumo o un flash di troppo e la magia potrebbe finire in un istante (inutile ricordare gli insulti al pubblico di Umbria Jazz 2007).
Questa sera, anche se con qualche eccesso, la musica è assoluta protagonista, chiede a tutti uno sforzo in più, un’inconsueta disciplina. Jarrett non è un intrattenitore, è un improvvisatore puro, il suo rapporto con lo strumento è totale, fisico, il flusso di idee che passa dalle sue dita è un fiume in piena, che lo travolge e non accetta interruzioni.
Finalmente sale sul palco, DeJohnette si accomoda alla batteria, Peacock impugna il contrabbasso. Un brevissimo inchino ed è già tra i tasti del pianoforte.
Il tema solare di I Got Rhythm di Gerswhin fa breccia nella trama scura di suoni che il pianista ha iniziato a tessere. Sono poche note di una semplicità disarmante che emergono sempre più e lasciano intravedere pian piano la logica impeccabile della struttura che le sorregge (non a caso su di essa verranno poi scritti un’infinità di pezzi, i rhythm changes, appunto).
Il treno intanto è partito, salgono anche gli altri due compagni di viaggio, mentre il pubblico applaude con le punte delle dita, stregato.
Un motorino sfreccia poco distante e fa temere il peggio. Nessun problema, Jarrett è in un altro mondo ed è già il momento di Basin Street Blues.
Tre musicisti, un solo cervello. Peacock, con la consueta eleganza leviga le fondamenta di una costruzione comunque in grado di stare in piedi da sola, mentre DeJohnette si diverte a creare qualche imprevisto.
Chi era rimasto imbottigliato nel traffico intanto raggiunge il proprio posto sperando di non essere fulminato, neanche giocasse col pianista a un, due, tre, stella… Lui imperterrito attacca Summer Night, ma è nella splendida realizzazione di Solar di Miles Davis che tutti i timori scompaiono.
È ufficiale: sul palco si stanno divertendo come matti. DeJohnette si prende qualche spazio in più, Peacock legge nel pensiero e conclude un paio d’idee che spuntano dal pianoforte a coda, scatenando le risate entusiaste di Jarrett. Il leader del trio intanto ha pian piano iniziato a regalare al pubblico i suoi inimitabili balletti alla tastiera, le contorsioni folli e quegli immancabili mugolii di furia creativa che sono disseminati in tutti i suoi dischi.
Nel brano successivo (agli atti One for Miles?) succede però la cosa più bella della serata. Un turnaround di rito che avrebbe potuto condurre il pezzo alla conclusione, colpisce inaspettatamente Jarrett. All’istante decide che da quella cellula ciclica si può partire e iniziare a volare. Ovviamente non c’è nemmeno bisogno di avvisare gli altri due: DeJohnette capisce che il momento è solenne e fa comparire le bacchette da timpano per creare degli effetti sui piatti.
La successione di accordi è potenzialmente infinita. Il tempo si ferma, così come il respiro delle persone. Il bivio per risolvere, la strada di casa sembrano scomparsi. Il pubblico è ipnotizzato, la giostra non si ferma più in un crescendo di emozioni, fino a quando magicamente ci si ritrova tutti di nuovo sulla terra ferma.
Gli applausi scroscianti concludono un primo set da libro delle favole.
Dopo una lunga pausa lo Standard Trio torna sul palco. Sembra il concerto perfetto, le luci del giorno sono definitivamente scomparse, regna il silenzio, dal prato non spunta nemmeno una zanzara. Il tempo vola sulle note di My Ship, I’m A Fool To Want You, Django, Answer Me My Love. Nell’ultimo brano tutta l’ironia di Thelonious Monk e della celeberrima Straight No Chaser.
Jarrett è davvero felice, ringrazia il pubblico e gli regala un bis d’eccezione, When I Fall In Love. Tifo da stadio. Incredibile, si siede per il secondo bis. Non fa in tempo a sfiorare la tastiera che dal pubblico parte il più infelice dei flash. Mr. Keith Jarrett scuote la testa, si alza e se ne va. Il concerto perfetto? Ci siamo andati molto vicini.
(Carlo Melato)