Irlandese di Belfast, chitarrista di virtuosismi assoluti, musicista in grado di spaziare tra generi diversissimi, Gary Moore è un personaggio difficilmente classificabile. Nel suo palmares ci sta di tutto: il blues di Peter Green e dei padri neri, il progressive estremo dei Colosseum II, il rock d’autore con Greg Lake o Jack Bruce e l’hard tosto di Phil Lynott e dei Thin Lizzy.
Dopo una quarantina di dischi e con una fama chitarristica che lo posiziona nell’olimpo dei superman, Gary è arrivato in concerto a Milano e, all’interno del Jazzin’Festival, Moore ha offerto uno show in cui ha espresso le sue diverse identità, con una lunghissima prima parte dedicata alla sua anima più rock e progressive e una parte finale che finalmente ha visto arrivare i classici blues più amati dai suoi fan.
Doppia anima, si diceva. L’apertura della serata è stata per due classici degli anni Ottanta come Over the hills and far away e Thunder rising, tratti da un suo best seller come “Wild frontiers”, pezzi in cui si sentono gran parte degli elementi che costruiscono la composizione rock del musicista di Belfast: richiami irlandesi, struttura progressive, aggressività hard.
Quest’ultimo tratto è un elemento costante: il suono duro della Gibson di Moore non lascia tregua i timpani del pubblico ad esempio quando affronta un brano di fortissimo impatto come Old wild one, concluso con uno dei soli più belli di tutta la serata, per il godimento di un pubblico in cui si contavano numerosi anche i sostenitori del metal, a dimostrare che il chitarrista di Belfast ha appassionati anche al di fuori del suo territorio d’elezione.
Il romanticismo di Gary – anche questa una costante di tutta la sua produzione – viene fuori nei pezzi lenti e più intensi, come la strepitosa Where are you now (un brano di nuova composizione) e la classica Empty rooms (che a dire il vero è stato messo in scena con qualche pecca, forse merito di un non perfetto affiatamento tra Moore e i suoi compagni di tournée), ballads d’amore dai toni soffusi che ben risaltano in una scaletta esplosiva.
Andando verso il finale di concerto, ecco i pezzi da novanta della sua produzione (e – a dire il vero – ecco il pubblico entusiasmarsi: non tutti hanno seguito con passione la prima parte del concerto….): prima Up in the fields, celeberrima cavalcata progressive dal ritornello facilmente cantabile e con reminiscenze di marcia militare (come spesso nella produzione non rock-blues di Moore), Still got the blues for you, lentissimo blues capolavoro da inserire negli annali, la debordante Walking by myself di Jimmie Rodgers, un rock-blues consegnato proprio dal buon Gary alla leggenda, brano che anche a Milano si merita una esecuzione dal vivo di raro effetto- trascinamento sugli spettatori.
E, in chiusura, ecco arrivare quella Parisienne walkaways che è una suggestione romantica su cui Gary Moore si esibisce in una serie infinita di virtuosismi per una buona decina di minuti. Pacioso e rilassato, il chitarrista ha salutato i milanesi (secondo concerto italiano dopo quello di Genova, di alcuni giorni fa) e presentato i suoi compagni d’avventura: Neil Carter alle tastiere, Jon Noyce al basso e Darrin Mooney alla batteria, gente in gamba, anche se lontano anni luce dalla classe del leader.
Concerto grintoso per una Milano estiva in cerca di distrazioni. Buon pubblico, anche se non stiamo parlando di una folla debordante. Pochi giovanissimi: non ricordo un recente video-clip di Gary e neppure un suo pezzo in heavy rotation radiofonica. Per fortuna, però, la classe non ha età e non si giudica dal numero di hit. E questo vale sempre e comunque.