24 maggio 1966: Bob Dylan compie 25 anni. Giovanissimo, è – un pelo dietro i Beatles ma parecchio avanti gli Stones – la rock star più acclamata al mondo, ma soprattutto la più influente, suo malgrado. A lui guardano infatti le avanguardie, quelle artistiche e quelle politiche, della società occidentale. E a Parigi, dove Dylan si esibisce quella sera del maggio 1966 ad ascoltarlo c’è una bella fetta di quella avanguardia che esattamente due anni dopo infuocherà i boulevard e le avenue parigine. Quella sera Bob Dylan che da settimane subisce la contestazione dei puristi del folk di sinistra per la sua svolta musicalmente rock e l’abbandono della canzone cosiddetta “politicamente impegnata”, avverte la presenza di quella avanguardia e decide di sfidarla: sa bene che pubblico si troverà davanti, d’altro canto la guerra in Vietnam è già una realtà. Sul palco dietro di lui fa mettere una enorme bandiera americana presa in prestito dalla locale ambasciata dei già odiati yankee. Per Dylan una orgogliosa e sfrontata dichiarazione di appartenenza: “this is american music”, dice spesso in quelle folli serate. Per il pubblico francese un insulto, una provocazione imperialista. Anche questa serata, come le altre di questo tour, e peggio delle altre, finisce fra le bordate di fischi e le contestazioni.
Los Angeles: l’anno adesso è il 1979. Sul palco di un piccolo locale l’ultima novità della scena rock inglese appena passata attraverso il cataclisma punk. Si chiamano Dire Straits e li guida un chitarrista pelle e ossa dal tocco chitarristico formidabile e dalla voce dylaniana. Si chiama Mark Knopfler. Stanno diventando la band di maggior successo al mondo e a vederli quella sera attratto dal battage mediatico c’è anche Bob Dylan che resta così colpito da quel chitarrista/cantante da invitarlo a suonare nel suo prossimo disco. Succederà ancora qualche anno dopo per un altro disco che questa volta Knopfler deve anche produrre. Impegni con i suoi Dire Straits lo chiameranno via per qualche settimana. Quando torna scopre che Dylan ha finito il disco da solo lasciando fuori una canzone straordinaria che i due avevano inciso insieme e che si intitola Blind Willie McTell e che per anni diventerà una leggenda a cui gli appassionati di musica rock daranno la caccia, nella speranza di poterla ascoltare. Knopfler rimane così deluso che le strade dei due non si incontrano più, almeno fino a oggi.
Quarantacinque anni dopo quella sera del maggio ‘66 a Parigi e circa trent’anni dopo la loro ultima collaborazione incredibilmente e a sorpresa Mark Knopfler e Bob Dylan si ritrovano insieme per un tour in coppia che girerà l’Europa. L’idea, pare, è stata di Dylan. I biglietti delle poche date vanno a ruba in pochi minuti: è una esclusiva europea, il pubblico arriva anche dagli Stati Uniti per assistere all’evento.
17 ottobre 2011: sul palco dell’enorme Palais de Bercy a Parigi stanno per salire prima Mark Knopfler, come vuole la consuetudine di questo tour, e poi Bob Dylan. I tempi sono cambiati per tutti: Knopfler è oggi un ingrassato signore di 60 anni che non suona più o quasi le canzoni dei Dire Straits: ha sciolto la band da diversi anni e adesso si dedica a musica di ispirazione irish e celtica, le radici del suo Paese (Knopfler è scozzese). Quell’avanguardia parigina che aveva fischiato Dylan è invecchiato anch’essa, ma fa capolino in mezzo al pubblico di stasera, imbiancati ma riconoscibili. Oggi sono la nuova leva del potere e con il loro – costoso – look radical chic alcuni di essi con i figli a seguito, li riconosci subito in mezzo al pubblico. L’unico che probabilmente non è cambiato, nonostante abbia fatto dei cambiamenti la sua bandiera, è proprio Bob Dylan: dal palco sta per scatenare una bordata rock talmente stordente che sembra che questa sia la continuazione di quella sera del maggio 1966. Solo che stanotte, al Palais de Bercy, in una calda notte autunnale parigina, Dylan sembra ancora più incazzato e velenoso che mai. Le poche date precedenti a questa del tour hanno deluso, tranne una serata in cui Knopfler si è unito a Dylan per duettare con lui in un brano, quanti si aspettano alcuni duetti fra i due. E soprattutto ci chiediamo tutti: ci sarà spazio per far risorgere il fantasma di Blind Willie Mctell?
Mark Knopfler sale sul palco poco dopo le otto, circondato dalla sua egregia band di sette musicisti fra altre chitarre, violino, flauto irlandese, tastiere e sezione ritmica. I ventimila del Palais de Bercy lo salutano con enfasi, ma sarà nulla rispetto al boato che circa un’ora dopo accoglierà Dylan. Come si sapeva, Knopfler dedica il 90% della sua scaletta al suo repertorio solista, quello cioè del dopo Dire Straits: brani dai suoi pregevoli dischi a suo nome che navigano nella musica celtica, semiacustica. Pochissimi infatti gli interventi di chitarra elettrica, ad esempio nel torrido rock blues Hill Farmer’s Blues, ma che senz’altro non bastano a chi è venuto in cerca di nostalgie del suo vecchio gruppo. Apre con What It Is, che come dopo con Sailing to Philadelphia testimonia quel ponte musicale fra isole inglesi e America, alla ricerca del suono dei milioni di emigranti che hanno lasciato casa per costruire una nazione nuova. Le canzoni di Knopfler, lente, a tratti sommesse, solo a volte si aprono a squarci di danza di stampo irish con il violinista in gran spolvero mentre lo stesso Knopfler se ne sta un po’ un retrovia. Ma è musica di grande fascino, forse più adatta ai piccoli teatri che ai palazzetti dello sport (anche se l’arena di Bercy ha una acustica straordinaria, oltre alla comodità di avere un palazzetto come il Forum di Assago in piena città e non nella sperduta bassa milanese).
Knopfler presenta anche un brano inedito, la pregevole ballata scottish dalle belle aperture strumentali Privateering. Poi scherzando dedica al pubblico francese Done with Bonaparte (basta con Bonaparte) che il pubblico gradisce. I botti però Knopfler li riserva per il finale, esattamente gli ultimi due pezzi. Ricordandosi di essere uno dei maggiori chitarristi della storia e di avere, o almeno di aver avuto un tempo, un’anima profondamente rock, si lancia nella debordante Speedway at Nazareth, in cui la sua chitarra lancia scintille che fanno alzare in piedi tutti e ventimila i presenti. E infine, ricordandosi anche di aver suonato in una band che si chiamava Dire Straits, tira fuori la slow ballad rock So Far Away che ancora oggi emoziona e comunica calde vibrazioni. Saluti, e giù dal palco.
Accolto da un ruggito tumultuoso, ecco Bob Dylan. Il cambiamento di luci, da quelle ricche di tinte pastello fino ai fari abbaglianti che avevano colorato il set di Knopfler, la dice lunga su cosa aspettarsi. I fari adesso sono bassi e di colori fumosi, dal marroncino al giallo sporco. Riducono la grandezza del palco che improvvisamente sembra fluttuare nel vuoto: sparisce la base e Dylan e i suoi, al solito tutti vestiti di nero da malavitosi degli anni 40, sembrano uscire da una macchina del tempo fantasma: non è più l’enorme arena sportiva, dove ci troviamo, ma un localaccio malfamato da qualche parte tra New Orleans e Chicago. Quei juke joint dove Robert Johnson si vendeva l’anima. E come in quei juke joint e come già avevamo visto la scorsa estate all’Alcatraz di Milano, per Bob Dylan oggi esiste una sola dimensione sonora e si chiama blues. Dopo un inizio abbastanza innocuo (Leopard Skin Pill Box Hat e It’s All Over Now Baby Blue, tanto per scaldarsi) quello che avevamo intuito a Milano diventa una baraonda difficilmente sostenibile. E’ il Dylan più malvagio e iroso che si ricordi.
E come se dopo aver passato tutta la vita a inseguire Robert Johnson (e Blind Willie McTell) e i loro demoni, Dylan adesso sia diventato adesso quel demone che li perseguitava. Il resto della serata sarà infatti una scarica di canzoni cantate sguaiatamente e con viziosità estrema: Things Have Changed, forse omaggiando Parigi, prende il tempo di una canzone di Jacques Brel, ma imbevuta di blues. Honest with Me, poi, con il cantante in piedi in mezzo al palco, il microfono in una mano e l’armonica nell’altra, le gambe piegate a metà in una posa luciferina, è stasera uno psycho blues scarnificato e dai riff spiritati. Blues ridotto all’osso e trasceso, come il rockabilly che Elvis sognava di fare, ma non ha mai avuto il coraggio di avvicinare. Se mai una canzone ha fatto paura, ebbene è il caso questa sera di questa versione di un brano che d’altro canto, a un certo punto dice: “I’m here to create the new imperial empire, I’m gonna do whatever circumstances require”.
Nel 1968, quando quell’avanguardia aveva dato via al maggio della contestazione, Bob Dylan pubblicava una canzone che si intitolava The Wicked Messenger, il cattivo messaggero: come un profeta biblico, Dylan avvertiva che se non puoi portare buone notizie, allora non portarne nessuna. Quaran’tanni dopo quelle cattive notizie sembrano essere per lui diventate l’unica cosa di cui cantare. E’ un mondo andato a pezzi, come diceva in Things Have Changed, e allora non posso fare altro che cantarvi di questo mondo che avete, abbiamo, contribuito a portare alla malora.
Desolation Row allora assume stasera aspetti davvero inquietanti, in una notte di inferno rock, placata solo dalla ballata old time Spirit on the Water e dallo swing tutto da ballare di Summer Days.
Ma l’apocalisse sta solo per riprendere: Highway 61 porta a dove ogni cosa era cominciata, nel profondo sud degli States, mentre ecco che sul palco arriva l’ospite desiderato: Blind Willie McTell è talmente trascendentale che perde anche il passo del blues. In mezzo al palco, Bob Dylan canta di un Dio che è lassù nel cielo e che ognuno di noi vorrebbe raggiungere. Piega le gambe e si contorce mentre la sua armonica alza la preghiera per ogni dove, “da New Orleans fino a Gerusalemme”. E se non vi sembra abbastanza, c’è ancora tempo per la Ballata di Mister Jones: cantata, anzi vomitata dall’inferno con la voce doppiata dall’eco, è troppo per i parigini: molti si alzano e se ne vanno.
In una sera come questa, la musica rock non è affare per chi va in cerca di distrazioni. In una sera come questa, come quella sera del maggio 1966, la domanda è ancora aperta: sta succedendo qualcosa qui, ma tu non sai cosa, vero Mister Jones? Oggi come allora, “this is american music” e per comnprenderlo bisogna aver fatto un lungo, faticoso e doloroso viaggio dell’anima. Alcuni lo hanno portato a compimento, come Dylan, altri si sono fermati troppo presto lungo la strada. All Along the watchtower e Like a Rolling Stone mandano tutti a casa in modo secco e repentino: neanche un bis.
E se vi stavate chiedendo se c’è stato il duetto con Mark Knopfler, no non c’è stato. I due oggi sono milioni di miglia “so far away” musicalmente parlando e la chitarra dell’ex Dire Straits non potrebbe mai infilarsi nelle intricate geometrie della band di Lucifero Bob.