Seconda tappa in terra italiana per i Fleet Foxes, dopo la fugace apparizione di circa tre anni fa, al Teatro Smeraldo di Milano. Ad aprire il concerto un’artista di nome Alela Diane. La sua musica ricorda Lucinda Williams, meno graffiante, più onirica, come probabilmente piace ai Fleet Foxes; e infatti il bassista e batterista del gruppo di Seattle, a turno, danno spinta e maggiore spessore alla performance, accompagnando la giovane artista in tre pezzi.
Sicuramente una cantante interessante, l’ennesima testimonianza della ricchezza e vivacità del panorama folk made in USA. Alela saluta il pubblico, questo è il suo ultimo concerto con i Fleet Foxes, il giorno dopo ritornerà a casa. Onorati di averla ascoltata.
Mentre i fonici preparano il palco, sullo sfondo giganteggia una foto da paesaggio montano, quel paesaggio che spesso viene richiamato nei testi delle canzoni, in particolare le Blue Ridge Mountains, patria della musica folk più verace d’America e che loro stessi celebrano in un brano omonimo. Ed eccoli, dopo l’ovazione un lungo silenzio durante il quale la sala rimane buia e lo schermo proietta la neve che cade. L’atmosfera è densa, si sa che c’è una grande aspettativa, questi artisti hanno veramente stupito il mondo, ma il giovane cantante rompe il ghiaccio candidamente: “Hi, thank you for coming!” Ringrazia Alela Diane, che ha aperto la serata, e parte con The Plains/Bitter Dancer, brano che rimanda immediatamente alla musica di CSN&Y tratto dal secondo album pubblicato nel maggio 2011.
Inizialmente si sente un po’ di affaticamento generale, anche nella voce di Robin Pecknold, ma si tratta solo di un inizio timido, l’avviamento di un motore diesel. Vengono eseguiti brani dal primo EP e alcune perle di “Helpnessless Blues”, il loro secondo e più recente album. Arrivano poi i brani del loro primo insuperato lavoro “Fleet Foxes”. L’approccio a canzoni come Ragged Wood è molto spensierato, gli arrangiamenti sono adattati alla situazione live per cui altri strumenti, come un pianoforte a muro (vedi intro a He doesn’t know why) o un mandolino, suonano le parti che spetterebbero a un violino o a chitarre elettriche con chorus o riverbero accentuato. Il gruppo sa trovare sempre una soluzione grazie anche alla polivalenza di alcuni membri che passano, tra una canzone e l’altra, dal contrabbasso al flauto traverso, o al sax, o al mandolino.
Sul palco la band si esprime con disinvoltura, fregandosene della forma; tra una canzone e l’altra ci sono pause lunghe e poche parole, in più i vari strumentisti provano le parti del brano che sta per essere eseguito. Ma quando la musica parte, si dimentica ogni sbavatura.
La dimensione live è quella con la quale la band dà il meglio: l’energia che accompagna i brani è unica e solo lontanamente intuibile dall’ascolto delle versioni studio. Come Battery Kinzie, veramente un fiume in piena. Oppure White Inter Hymnal, una filastrocca cominciata in modo scanzonato e quasi per scherzo. The Shrine/An argument e These days (cover di un vecchio brano di Jackson Browne, inciso anche da Nico dei Velvet Underground) in duetto con Alela Diane tolgono il fiato.
Con i loro cori (che richiamano per forza di cose la stagione West Coast degli anni Settanta e in particolare band che fecero dell’armonia vocale il loro manifesto, coem CSN&Y), le chitarre acustiche e le camice di flanella, i Fleet Foxes fanno rifiorire il rock ripartendo da zero, raccontando storie oscure di vagabondi innammorati e disperati, fratelli persi tra le montagne con un’intensità unica:
If I know only one thing,
It’s that everything that I see
Of the world outside is so inconceivable,
Often I barely can speak.
Yeah, I’m tongue-tied and dizzy, and I can’t keep it to myself.
What good is it to sing helplessness blues?
Why should I wait for anyone else?
In realtà Helpnesless Blues, da cui sono tratte le parole qui sopra, e che ha chiuso il concerto, era un po’ spompa… ma poco importa. Siamo alla fine, il gruppo è al 100% da un bel pezzo, l’esecuzione di Blue Ridge Mountains è di pochi minuti prima e la stiamo ancora metabolizzando: questi ragazzi hanno fatto propria la migliore tradizione folk americana, provare per credere.
(Giovanni De Cillis)