Quando, nel 1970, i Beatles si sciolgono definitivamente dopo una lenta agonia, John Lennon rilascia uno dei suoi tipici caustici e apparentemente cinici commenti: “Il sogno è finito”. Intendendo con ciò il sogno che aveva rappresentato l’avventura della più grande band del decennio appena finito, ma anche il sogno che quella band aveva elargito al mondo: senza i Beatles non ci sarebbero state le utopie e le speranze dei Sixties.
Quarant’anni e più dopo la fine di quel sogno, Paul McCartney ha rimesso insieme i cocci di quel sogno e lo ha mostrato, tutto intero nella sua bellezza, durante i due concerti italiani del suo On the Run Tour 2011, che si concluderà dopo una manciata di date nella natia Liverpool il prossimo 20 dicembre. Per McCartney, infatti, i Beatles non avrebbero mai dovuto finire: se negli ultimi mesi del 1969 tentò una battaglia impossibile, nei decenni trascorsi ha pazientemente rimesso in piedi un puzzle che era troppo bello perché si scomponesse definitivamente.
Lo ha fatto perché lui, Paul McCartney, era “il” Beatle: ne è sempre stata l’anima più profonda, lo sperimentatore cosmico, il traghettatore verso sonorità impensabili, il tessitore dell’utopia. Con buona pace di John Lennon, dischi come Sgt Pepper’s o Abbey Road è McCartney che ha fatto in modo che esistessero. Oggi, complice la scomparsa di Lennon e George Harrison, McCartney è più che mai “il” Beatle. Non solo perché ha avuto il coraggio di proporre in concerto pezzi dei due amici scomparsi (l’esecuzione di Something, iniziata scherzosamente con sola voce e ukulele, lo strumento preferito di Harrison, è letteralmente esplosa in una versione full band di una commozione e perfezione assoluta, mentre sullo sfondo scorrevano le immagini dell’amico George, ripreso in studio a ridere e scherzare con Paul), ma perché ha dimostrato anche nelle pieghe dei suoi ultimi lavori solisti – la splendida Sing the Changes dal recente disco a nome Fireman – che quella cultura musicale e umana è tutt’oggi più viva che mai. Di Lennon ha avuto l’ardire poi di riprendere il suo capolavoro assoluto. A Day in the Life, trascinandola in medley con Give Peace a Chance, ed è allora che è stato chiaro a tutti gli oltre diecimila accorsi al Forum di Assago che il sogno, quel sogno, è ancora in piedi tutto intero. Per chi ha voglia, in questa epoca di spread, finanze impazzite, fine della politica, di sognare.
Un sogno che fa rima con amore, puro e semplice, parola abusata e violentata, ma di cui McCartney ha sempre dimostrato di non avere vergogna: ecco allora All You Need Is Love, ancora di Lennon, a conferma di un bisogno esistenziale e non certo ideologico. Tutto ciò è apparso ancora più chiaro nello straordinario, intenso, commovente (solo un cuore di pietra avrebbe potuto non lasciare andare qualche lacrima) finale di concerto con il medley di Abbey Road, Golden Slumbers / Carry That Weight / The End, potente come assistere a una esecuzione dal vivo di Beethoven o Mozart: “And, in the end, the love you take/ Is equal to the love you make” (alla fine, l’amore che prendi è uguale all’amore che dai), che con quel delizioso accenno zen, dà la misura di quello che, alla fine, è il senso della vita. L’amore che sei in grado di ricevere è dato in misura dell’amore che sei in grado di dare al prossimo. E’ un impegno, è una responsabilità, non è gratis.
E’ stato nel suo complesso un concerto poderoso, festante, dai mille giochi di luce e anche con i fuochi di artificio e le esplosioni di fiamme (nella straordinaria Live and Let Die, del periodo anni 70 con gli Wings, a riprova che bene o male McCartney anche dopo i Beatles ha composto canzoni memorabili). Un concerto dove la musica dei Fab Four ha fatto la parte del leone, praticamente tre quarti delle canzoni in programma, un concerto lunghissimo, ben tre ore, cavalcato senza neanche una pausa da uno splendido 68enne in forma fisica smagliante. Gigionesco, accattivante, con perfetta classe british anche nel look da dirigente della City: in fondo è un Sir, anche se Sir del rock’n’roll.
Aperto con Hello, Goodbye, il concerto ha visto brani come All My Loving, Drive My Car, una rara The Night Before (sullo sfondo scorrevano le immagini dei quattro meravigliosamente giovani ai tempi di A Hard Days Night), Paperback Writer (suonata orgogliosamente con la chitarra usata ai tempi per inciderla), The Long and Winding Road, I’ve Just Seen A Face. Con un intermezzo acustico che ha visto Paul da solo in Blackbird, dedicata ai giorni delle battaglie per i diritti civili in America, e Here Today, dedicata invece “al mio amico John”. E ancora, sempre dal catalogo Beatles, Eleanor Rigby, Ob-La-Di, Ob-La-Da, una poderosissima Back in the Ussr, una ficcante I’ve Got a Feeling, memore del concerto sul tetto della Apple, e ovviamente le immancabili e corali Let It Be e Hey Jude con il pubblico letteralmente in delirio. Dal suo repertorio con gli Wings, la quintessenza del rock glam ed esagerato degli anni 70, McCartney ha scelto pezzi rarie mai suonati in Italia come 1985 e Mrs Vanderbilt o classici assoluti come Maybe I’m Amazed e Band on the Run. Il finale, con un McCartney che a ogni canzone sembrava ringiovanire sempre di più, ha rivisto ancora la magia dei Beatles: Yesterday, in totale e toccante solitudine, la devastante Helter Skelter, che ancora oggi fa ammutolire gli oltranzisti dell’heavy metal, Day Tripper e Get back fino al già citato medley da Abbey Road.
La magia è stata totale: a differenza del 90% dei suoi coetanei, ogni canzone dei Beatles eseguita non mostrava segno alcuno di vecchiaia, come se fossero state composte ieri ed eseguite oggi dal vivo per la prima volta. Un motivo ci sarà. Una nota di colore: come tutti i concerti, nell’attesa che la star salga sul palco, viene diffusa musica varia di sottofondo. Di solito vengono scelti brani che l’artista in questione ama particolarmente e che ha piacere il pubblico in attesa ascolti. Ieri sera, aspettando Paul McCartney che salisse sul palco, si potevano ascoltare solo canzoni dello stesso McCartney in stravaganti e rare versioni. Il senso di questa scelta? Solo McCartney può permettersi di citare se stesso. Anche qui sta la misura della sua grandezza.