“Casta Diva”. Queste due parole, questa espressione quasi mistica, devozionale balena nella mente del sottoscritto al congedarsi della Peyroux dal palco milanese. E’ un’espressione che offre alcuni rimandi, forse due, forse molteplici, forse infiniti. Bellini e la Callas. Hai detto niente. Mi servo della relativa voce su Wikipedia per sintetizzare il puro e nudo significato di questa celebre aria lirica: “costituisce una preghiera che la sacerdotessa gallica eleva alla luna”. Ecco, appunto. La luna – così come le stelle – come epicentro di quel particolare e unico terremoto esistenziale che è il grido umano. E quella famosa aria sembra suggerire che nel grido supremo dell’arte, di quella paradossale, sfuggente e volubile forma d’arte che è la musica, si possa celare il segreto di uno sguardo di cui l’artista vuole essere tramite privilegiato per gli spettatori. Lo sguardo verso quella luna, verso un infinito misterioso e, forse, in via di definizione.
L’espressione “casta diva” sembra evocare alla perfezione questo strano tipo di complicità e fornisce nello stesso tempo la chiave per una provocazione. “Casta Diva” o in realtà “La Casta della Diva”? Ecco il più classico dei crocevia umani. La bellezza, lo spessore profondo e attraente del rapporto pubblico/artista corre in parallelo con il grande rischio dell’ambiguità, dove la testimonianza dell’artista smarrisce la natura di narrazione di un fatto e svicola nel “divismo”, come a dire “la luna l’ho vista, ve la racconto ma a voi non è dato vederla”.
E, per stare alla cronaca che ci riguarda è evidente che la nostra cara Peyroux, baciata dal talento e da probabili parentele astrali, sa di essere di un altro pianeta e le preme molto farlo sapere a tutti. Potrà sembrare eccessivo e troppo severo ma la trama di rapporti disegnata l’altra sera dalla Peyroux è stata proprio questa. E non si può parlare tanto di noia quanto semplicemente di distacco, di scollamento umano tra le parti in gioco. Un piatto di prelibatezze cucinato con cura ore prima per convitati di pietra. Formalmente presenti, ma assenti nell’intima e illuminata considerazione dell’artista “padrona di casa”.
E sì che dal punto di vista della pura e nuda cronaca dell’evento musicale di sostanza ce n’è stata, eccome. Pur nella breve durata – 11 brani per 70 minuti complessivi – ciò cui si è assistito è stato musicalmente ricco con la nostra coadiuvata da una band solidissima e centrata, che vede Gary Versace a pianoforte, tastiere e Hammond (con tanto di Lesile-effects); Shane Theriot alle chitarre, Barak Mori a contrabbasso e basso elettrico e Darren Beckett dietro i tamburi. Ad aprire le danze uno swing sciolto e brillante in odore di Ella Fitzgerald – veloce mordi e fuggi che non trova riscontro nella discografia della nostra (ben più orientata su standard slow o mid-tempo) – che si produce qui in un frenetico e seducente gioco di flessione, strutturazione e destrutturazione vocale da lasciare basiti per personalità e disinvoltura. Il tutto agilmente supportato da brevissimi e agili passaggi solisti del quartetto di supporto. Una “I’m All Right” già ricorrente nel repertorio della singer lascia spazio al jazz in punta di samba “Half The Perfect World”, dall’album omonimo del 2006 e prima delle cover di Cohen della serata.
Cinque brani tratti dall’ultimo lavoro “Standing On The Rooftop”. Passano in rassegna una “Ophelia” più incisiva e narrativa che non nella versione su disco, e la bella collaborazione wymaniana di “The Kind You Can’t Afford”, punteggiata dalle pregevoli alternanze vocali tra blues e recitativo e da una coda all’insegna di uno staffilante solo di hammond di Gary Versace.
Alla band più compassata e rigorosamente canonica guidata da Larry Klein, subentra qui un ensemble più giovane e aperto alla contaminazione del suono con iniezioni folk-rock e blues. Approccio, questo, che risalta nella sezione centrale acustica del concerto dove la Peyroux si pone al centro con la band in posizione adiacente a rappresentare un’intrigante piccola orchestra di strada che nella gainsbourgiana “La Javanaise” vede la nostra nella veste della maliarda cantastorie ad intrattenere ipotetiche anime girovaghe di Montmartre e Pigalle, mentre la nuova e bellissima “Don’t Pick a Fight With a Poet” la ritrae nei panni di una scaltra Doris Day mendicante delle radici del musical rivestito di commedia.
E’ l’apice del recital che trova un’apoteosi di inaudita drammaticità nella resa stralunata della cover di Robert Johnson “Love In Vain”, sostenuta da una sequenza inquietante e sinistra di accordi di hammond e da continue punteggiature di chitarra “bottleneck”. Tensione che viene conservata a dovere dall’ossessiva title track dell’ultimo album, ma che cala improvvisamente nel finale dove, superata di poco l’ora di performance la nostra rilascia in una sequenza da timbro del cartellino la notissima “Dance Me To The End of Love” e una “Instead” che con la sua ripresa finale funge da congedo dell’artista e della band prima di eventuali bis che in realtà non hanno luogo.
La Peyroux, come un’autentica diva, alza svagatamene gli occhi allo sparuto pubblico del “late night show” e rientra nei camerini abbassando lo sguardo in un ben studiato e sommesso gesto di commiato. La band saluta timidamente e si intravede un lieve sorriso d’imbarazzo sul volto di Gary Versace.
Callas e Billie Holiday ieri, Peyroux oggi sono lì a certificare l’invincibile stravaganza dell’arte e, al suo interno, l’esile confine tra testimonianza e autocelebrazione, il navigare a vista sulla soglia della mistificazione. Se c’è stata nell’esistenza delle prime due una qualche ombra di divismo (più indotto dal mito creatone attorno che dalle stesse interessate), oggi non c’è più questa possibilità, ne rimane solo la bellezza, impressa e non più manipolabile, e l’intimo legame con una vita di dolore, infelicità e forse di eccessi.
Nella Madeleine Peyroux del concerto di giovedì notte al Blue Note di Milano (“late night show”, l’ultimo dei quattro recital tenuti nel lussuoso mini-bunker della musica lombarda), la partita è tutta aperta e, al momento, la vocalist georgiano/canadese la gioca dal mondo dorato della propria personalissima casta. Quella della complicità imboscata tra artisti offerta per gentile concessione al pubblico certo un po’svagato ma oggetto dell’amorevole compatimento della diva.
Diva alla quale vorremmo elevare la nostra umile supplica di innamorati non corrisposti. Cara Madeleine, vorremmo tanto andare a vedere quella luna insieme a te.
(Alessandro Berni)