Nell’arco di poche settimane hanno grande successo due edizioni molto differenti de L’Elisir d’Amore di Gaetano Donizetti.

A La Fenice è stata ripresa una bella edizione  (regia di Bepi Morassi e le scene i costumi di Gianmaurio Fercioni) un po’ invecchiata con un giovane direttore d’orchestra (Matteo Beltrami) e un cast di grande livello (Desirée Rancatore, Celso Albelo, Bruno De Simone , Roberto De Candia).



A Roma (dov’è in scena sino al 18 febbraio), la coproduzione (con la San Francisco Opera) del lavoro sfoggia, per l’azione scenica, un’équipe   (Ruggero Cappuccio per la regia, Nicola Rubertelli per le scene e Carlo Poggolio per i costumi) che viene dal teatro sperimentale campano, un direttore musicale di grande esperienza (Bruno Campanella) e quattro interpreti di grido (Adriana Kucerová, Saimir Pirgu, Fabio Maria Capitanucci e Alex Esposito).



Molto tradizionale la prima edizione. Innovativa la seconda tanto che qualche recensore ha pensato che la vicenda fosse stata trasferita dalle dolci campagne della parte francese dei Paesi baschi a un circo. A me pare invece svolgersi in un assolato villaggio campano (forse, dati i colori, nei pressi di Benevento) pieno di clown e giocolieri e in cui Dulcamara arriva mascherato da Renato Brunetta (il quale non ha mai mancato di senso dell’humour).

Prima di commentare l’edizione romana , è utile fare un cenno a the politics de L’Elisir d’Amore, argomento mai trattato ma non così peregrino se nel lontano settembre 1994 Ugo Gregoretti ne mise una versione aggiornata ai tempi d’oggi e tra i cui protagonisti c’erano Silvio Berlusconi, Giuliano Ferrara, Gianni Letta e Gianni Pilo – tutti personaggi allora (e almeno tre dei quattro anche ora) con ruoli pubblici di rilievo.



Dove è the politics di un capolavoro composto in due settimane per un piccolo teatro milanese (quello della Canobiana) da un Donizetti maturo ma già con la malattia che lo portò in manicomio e alla morte precoce dopo avere freneticamente composto 69 opere oltre a un enorme numero di spartiti per camerista, musica da chiesa e chi-più-ne-ha-più-ne-metta?

Non tanto nella pièce di Eugène Scribe da cui è l’opera tratta, ma dal modo in cui Felice Romani scrisse il libretto e Donizetti lo musicò. Considerata spesso un’opera comica, e condita da frizzi e lazzi, è un “melodramma giocoso”, dello stesso genere delle opera semi-serie come La Gazza Ladra, Nina Pazza per Amore di Paisiello,  Lodoiska di Mair, La Sonnambula di Bellini.

Era un genere di teatro in musica molto popolare all’inizio del Diciannovesimo Secolo. Lo stesso Donizetti compose numerose opere semi-serie tra cui Linda di Chamonix e Il Furioso nell’Isola di San Domingo (spesso in scena negli Stati Uniti nel periodo della fine tormentate della Presidenza Nixon e della guerra in Viet-Nam).

Il genere piaceva al pubblico proprio perché i tempi erano difficili (guerre, rivoluzioni, tensioni politiche e sociali) in quanto coniugava il dramma con momenti di evasione comica.
L’opera è del 1832; il lavoro di Scribe di poco più di un anno prima, l’anno dei moti descritti vividamente da Victor Hugo negli ultimi capitoli de Les Miserables

Nel mettere in scena L’Elisir occorre tener conto di come gli elementi drammatici e quelli ironici (mai comici) sono ricamati come in un merletto.
Partendo da un assunto banale (un presunto filtro magico che suscita le reazioni di uno sprovveduto villaggio), si incontrano ingenuità e poesia con un equilibrato gioco delle parti. Il duo  Adina-Nemorino non è lo stereotipo dei tradizionali innamorati, ma ha una spigliata dimensione umana.

Donizetti si diverte a mettere in berlina l’opera seria metastasiana, allora ancora di moda in certi teatri e ceti sociali. Prende per il naso anche la nuova borghesia arricchita (dalla “possidente” Adina e al lontano ricco zio di Nemorino), nonché gli eserciti diventati arroganti durante le guerre napoleoniche – e tali rimasti dopo di esse – e i politici imbonitori che finiscono con il credere in quel che promettono).

Un quadro, quindi, di una società al tempo stesso in crisi e in transizione. Per questa ragione, l’equilibrio orchestrale è instabile con i fiati (principalmente i tromboni) che tendono a sovrastare gli altri strumenti e in certi momenti a coprire i cantanti attori. E sotto il profilo vocale si transita gradualmente dal duettino iniziale alla grande aria per tenore (Una furtiva lacrima) al breve ma delizioso rondò per soprano. Pure la musica diventa politica in questa commedia tra il larmoyant e l’ironico.

Sotto il profilo musicale, Bruno Campanella è un concertatore specializzato nel repertorio di fine settecento; ha posto l’orchestra al servizio delle voci. Alex Esposito (Dulcamara) e Fabio Maria Capitanucci (Belcore) sono veterani dei ruoli e del grande palcoscenico del Teatro dell’Opera. 

L’applausometro, però, è andato alle stelle per il giovane albanese Saimur Pirgu, specialmente quando ha affrontato la temibile Una furtiva lacrima, in cui ha dato prova di grande maestria.

Molto attesa la giovane e bella Adriana Kucerová, giovane cantante slovacca che ha trionfato a Glyndebourne e altrove. Ha  la perizia vocale e l’avvenenza fisica di Adina ma, accanto a Pirgu, ha una voce piccola per l’enorme teatro romano, concepito per il verismo e per il grand-opéra.