Giornate primaverili di fine maggio che già sembrano anticipare l’estate… Tutte le strade portano a Parigi, per l’esattezza a Le Bataclan, storico locale in funzione sin dai primissimi anni Settanta. Il locale, come riporta il sito, è una “Salle de spectacle mythique” situato in una zona semi centrale della capitale francese.
Il nome è ricavato dall’operetta di Offenbach “Ba-Ta-Clan”. Costruito nel 1864 e ispirato a uno stile architettonico cinese, originariamente era adibito a teatro e caffè al pian terreno e a sala da ballo al primo piano. Parzialmente distrutto durante la guerra e convertito a cinema, dal 1969 è tornato ad essere una sala per spettacoli con una capienza di 1.500 posti circa. E che spettacoli. Da lì a poco Lou Reed avrebbe registrato il mitico “Le Bataclan ’72”. Band del calibro di Iron Maiden, Oasis, Muse avrebbero poi calcato questo stesso palco.
Se non si sente il desiderio di trascorrere la serata con le gambe sotto il tavolo per gustare le “prelibatezze”, ancorché discutibili, della rinomata nouvelle cuisine, disporre di una sera libera a Parigi è il massimo dato che le opportunità per un fan affamato di good rock’n’roll certamente non mancano. Grazie a un bacino di pubblico folk-rock importante, un’ottima logistica che colloca Parigi in una posizione strategica dell’Europa continentale, nonché la numerosità dei locali, la capitale francese è seconda solo a Londra per vastità e portata dei concerti in programma.
Poco tempo fa, al Batclan il programma è stato decisamente ghiotto. Si sono esibite due band di culto entrambe americane, i Low, di cui è uscito da poco il nuovo “C’mon”, e i Mercury Rev che hanno presentato per intero il loro disco più famoso “Deserter’s Songs”.
Svesto i panni alla Gordon Gekko e mi travesto da spettatore ordinato del Bataclan.
Orario d’inizio previsto 19.30. Come indicato nel programma giungo al locale in perfetto orario (prima lezione: i francesi sono più svizzeri degli svizzeri per puntualità). Sto per entrare in sala e sento una musica soffusa, come di sottofondo. Immagino che sia la soundtrack pre-concerto. Macché! sono le note iniziali e appena sussurrate di Nothing but heart, canzone di apertura dello show. Supero il muro di gente intorno al bancone del bar (seconda lezione: sono balle che i francesi bevono solo vino, la birra piace e pure assai) e mi accomodo in uno dei pochi posti a sedere ancora liberi. Nell’album le parole “I’m nothing but heart” vengono ripetute ben 24 volte. Ascoltarla dal vivo pare infinita. “Non sono altro che cuore” inizia come un’affermazione per terminare in un grido d’invocazione quando la canzone raggiunge la sua massima deflagrazione. “Non sono altro che cuore”. Il muro sonoro si fa più imponente, da prima con l’ingresso della chitarra che diventa sempre più distorta, poi del basso, delle percussioni e della tastiera.
La voce di Mimi Parker progressivamente cresce e si intreccia a meraviglia con quella di Alan Sparhawk, fino ad avviare un controcanto che fa sì che si sovrapponga la strofa iniziale con il ritornello. Le parole inizialmente suonano in maniera delicata, come appena sussurrate.
Alan stravolge la pronuncia di nel corso del prosieguo della melodia, trattenendo la “N” tra i denti e aspirando la “H” in gola. Ogni interpretazione assume nuove tonalità: rattristata, disperata, supplichevole e infine furiosa. Un’esplosione sonica devastante lunga quasi 10 minuti. Mi trovo in apnea totale.
Posso andarmene, ho già visto tutto. Invece riprendo a respirare e rimango in stato di trance per l’intera durata del set. Il minutaggio finale sarà di 55 primi. Sul palco, i coniugi Alan Sparhawk (voce, chitarra) e Mimi Parker (percussioni, voce), sono accompagnati da Steve Garrington (basso) e da Eric Pollard (tastiera, voce), già compagni di viaggio di Alan con il side project più elettrico dei Retribution Gospel Choir.
Le canzoni di “C’mon” vengono riproposte praticamente tutte, fatta eccezione per la malinconica Done e la ballata Something’s Turning Over. Lo show è impreziosito da due gemme, Monkey e Silver Rider, già prese in prestito da Robert Plant nel recente “Band of joy” e reinterpretate in chiave ancora più slowcore. Inimmaginabile.
La chiusura è lasciata a “Violent Side” (Drums and Guns) e “Sunflower” (Things we lost in the fire). Al termine del concerto davanti al furgoncino dei Low, spazio per un paio foto e quattro chiacchiere sia con Mimi che con Alan, quest’ultimo il più affabile dei due.
La sua inflessione è chiara e forse appositamente lenta. In apparenza timido, sembra prendere le giuste pause per cercare le parole opportune, ma la sua voce è ricca e profonda (terza lezione: non tutte le persone di Duluth hanno la parlata alla Donald Duck come his Bobness).
Mi soffermo a chiedergli sulla canzone “Nothing But Heart” cercando di estirpargli chissà quale segreto recondito. “Come mai il Cuore viene ripetuto così strenuamente?” Alan: “Ma niente, suonava bene!”. Mi spengo, ma non demordo e Alan aggiunge: “C’mon parla dei sentimenti essenziali e primordiali, per esempio del rapporto e del dialogo con mia moglie Mimi. Nello specifico di Nothing But Heart ritengo che ogni essere umano abbia questa domanda ineliminabile. Per me è così…”.
Ah, chiederete… e i Mercury Rev? Un’ora e mezza di show, il celeberrimo “Deserter’s Songs” eseguito al completo. Applauditi e osannati, in fondo il pubblico era tutto per loro. Tranne me. I’m Nothing but Low Heart…
(Lorenzo Randazzo)