Nel 1999, negli Stati Uniti, in occasione del trentennale del Festival di Woodstock venne organizzata una delle manifestazioni rock più tristi di sempre, che non a caso si concluse con un incendio di massa. Per un mega evento rock, fu infatti scelta la desolante ex pista di un aeroporto: certo, in caso di pioggia come nelle precedenti edizioni, si sarebbe evitato il fango, ma in compenso si ebbero tre giorni di musica e sole cocente in una scenografia delle più disumanizzanti che si possano immaginare. Non memori di questo, o forse probabilmente all’oscuro come spesso succede in Italia, chi ha pensato Rock in Idrho ha voluto bissare quella triste manifestazione. Più che un festival, infatti, quello andato in campo mercoledì 15 giugno alla Fiera di Rho sembrava un campo di concentramento rock.
Nel sole cocente durato ore, il pubblico pagante si aggirava come zombie sotto una canicola disumana, in cerca di angolini d’ombra fossero anche a ridosso delle toilette chimiche. Ma non solo. Per evitare – forse – che gli hooligans del rock’n’roll (come ancora sono considerati gli spettatori di questa musica) intaccassero alcunché della lucente Fiera di Rho, è stato impedito l’ingresso alla zona del concerto attraverso la fiera, costringendo chi proveniva dai parcheggi auto ad aggirare l’immenso complesso, cioè camminando anche per tre quarti d’ora sotto il sole.
Con una mentalità ai limiti della decenza, poi, si era deciso di fissare il pagamento dei parcheggi in una sola tariffa complessiva di 15 euro. Mica bruscolini. E se uno veniva per ascoltare solo il suo gruppo preferito e voleva andare via dopo un paio d’ore? Sempre 15 euro da pagare. Manco la scelta di dove posizionare il palco è stata delle più felici: alle spalle il sole, il che ha significato fino all’imbrunire essere costretti a guardare tipo indiani delle pianure americane, con la mano sulla fronte, per riuscire a vedere qualcosa. Sembreranno le osservazioni di un vecchietto del rock qual è chi scrive, visto che dei circa 30mila presenti ieri non è sembrato lamentarsi nessuno e non è finita come a Woodstock ’99. Ma è un dato di fatto che quella per gli spazi della musica, in Italia, all’alba del 2011, si possa considerare una partita persa.
Mai nel nostro Paese alcuna amministrazione di destra come di sinistra, ma anche chi lavora nella musica, ha pensato a spazi adeguati per essa. Si costruisce un palazzetto per lo sport (Assago)? Bene grazie tante, lo useremo anche per i concerti (acustica indecente, ovviamente). C’è un grande stadio di calcio, non importa se in mezzo alle case? Usiamo anche quello per i concerti rock. C’è una fiera che ha un orribile parcheggio di cemento? Ecco pronto il festival rock. Triste, tristissimo così lontani anni luce dagli anfiteatri esclusivamente pensati per la musica che si trovano in California, o dai festival nelle verdi colline inglesi. E’ d’obbligo allora citare la Barley Arts, al momento una delle poche realtà della musica italiana che pensa in modo differente, buon testimone ne è il Festival Dieci Giorni Suonati, pensato e organizzato nella splendida cornice del castello medievale di Vigevano, in mezzo al verde.
Passando alla musica suonata, Rock in Idhro presentava un cartellone di altissimo livello. Che ovviamente andava verificato alla prova del live. Dopo gli italiani Ministri, buoni esponenti dell’alternative indie made in casa nostra, sono tornati i Floggin’ Molly, vecchia conoscenza del festival. Erano stati qui già nell’edizione di due anni fa, e seppur sempre trascinati e divertenti, bisogna dire che la loro formula pare ormai scontata e priva di sorprese. E’ un irish punk, il loro, che cerca di mettere insieme Clash e Pogues, senza avere le canzoni dei primi o dei secondi. Il risultato è uno spettacolo che inizialmente diverte, poi annoia. E poi: chiedere di ballare e zompare sotto il sole cocente delle quattro di pomeriggio al massimo può dare qualche sensazione di psichedelia a buon mercato (della serie: le allucinazioni da troppo caldo). La delusione del festival sono stati comunque gli americani Band of Horses. Avevamo amato i loro dischi, moltissimo l’ultimo loro cd, che suonava alternative country come da anni non si ascoltava, tra schitarrate punk e melodie degne della California anni 70. Dal vivo invece si sono dimostrati soporiferi come pochi, e al limite della stonatura.
Ogni brano ha perso le potenzialità melodiche che aveva su disco per diventare noioso pasticcio sonoro. Sarà stato il caldo anche per loro, ma a trent’anni non si può avere così poca energia da spendere. E’ un problema di cuore, non di fisicità. Meglio invece è andata con gli svedesi Hives, irriverenti come da buona tradizione punk però quella britannica. Si sono presentati sul palco con improbabili frac con tanto di tuba e hanno dato vita a un’oretta di assalto sonoro all’arma bianca. Brani non particolarmente ricchi dal punto di vista compositivo, ma dal tiro rock di alto livello. Nel solco della grande storia che dai Kinks scende giù fino ai Sex Pistols. Quindi Rock in Idhro si è preparato a gettare sul tavolo le sue carte migliori. Presenti anche loro all’edizione di due anni fa, sono tornati gli straordinari e immensi Social Distortion. Hardcore punk band nata nei primissimi anni Ottanta nella fiorente scena losangelina di Orange County, la band del cantante e chitarrista Mike Ness è oggi più vicina ad atmosfere springsteeniane e rollingstoniane, pur mantenendo intatta l’attitudine punk. Uno spettacolo nello spettacolo (Ness vestito come un gangster degli anni Quaranta, gli altri come eroi rockabilly dei Cinquanta) hanno bruciato ogni remora e incendiato l’orrido parcheggio di Rho. Tirando fuori classici come Bad Luck o brani dell’ultimo cd come California e Machine Gun Blues (questi impreziositi dalla presenza di due coriste di colore vestite come la Tina Turner dei tempi d’oro, cioè molto poco vestite) hanno ridato senso alla parola rock’n’roll, quello che non fa prigionieri e rilancia la scommessa se la promessa sia qualcosa di afferrabile ora, adesso, in questo momento.
Per quanto è durato il loro show, la promessa era cosa viva e presente, ma lo è rimasta anche dopo. Specie dopo averli sentiti suonare Ring of Fire di Johnny Cash in versione hardcore punk. Una staffilata al cuore. E’ chiaro che a questo punto il livello artistico del festival ha decisamente alzato l’asticella verso l’alto, molto in alto. E se adesso fa caldo, seppur con il sole che comincia a sparire all’orizzonte, è un caldo giustificato: è il caldo del rock’n’roll. Salgono sul palco Iggy and the Stooges. Nato nel 1947, 64 anni portati in modo incredibile alla faccia dell’uso e dell’abuso di droghe, Iggy Pop appare come sempre appare Iggy Pop da quarant’anni a questa parte: jeans e torso nudo. Scatenato come un serpente a sonagli, salta in modo scimmiesco e scoordinato per ogni lato del palco. Ma quello che fa più impressione (lo abbiamo visto spesso sui palcoscenici italiani) è vedere gli Stooges in azione. Anzi, sentirli suonare. Ultrasessantenni anche loro, nonostante la morte del chitarrista storico Ron Asheton un paio di anni fa (ma ci sono ancora alla batteria il fratello, Scott, e poi Steve Mackay al sassofono, James Williamson alla chitarra e buon ultimo al basso Mike Watt, ex Minutemen ed ex fIREHOSE) hanno una potenza sonica semplicemente devastante.
D’altro canto il punk si può ben dire l’abbiano inventato loro, e se quarant’anni fa erano dei ragazzini maldestri che amavano solo far del rumore, questo rumore oggi è quasi una sinfonia gloriosa, degna di una orchestra di musica rock: Raw Power, Search and Destroy, 1970, Gimme Danger, I Wanna Be Your Dog e la conclusiva No Fun, che invece – come sempre – era divertimento puro. Da paura. Come sempre, durante Shake Appeal Iggy fa salire sul palco una dozzina di spettatori delle prime file: incredibilmente, sono tutti ragazzini di 15, 16 anni al massimo, ed è segno che sì, come diceva Neil Young, il rock’n’roll non morirà mai. Durante I Wanna Be Your Dog Iggy Pop scende poi dal palco per buttarsi tra le prime file di fan, a malapena trattenuto dalla secuirty. Sarà un routine, ma è sempre una bella routine e il sound di questi vecchiacci fa impallidire tutte le band di oggigiorno. Inclusi gli osannati Foo Fighters, per cui il 90% degli spettatori era venuto qua oggi. E che con irriverenza nei confronti degli Stooges chiuderanno il festival tra osanna e quant’altro. A noi, mentre ci allontaniamo devastati dalla giornata cocente, sembra solo un’altra rock band come milioni. Poco serve aggrapparsi alla torre delle luci mentre si suona un assolo: questa sì che è routine rock. Grande energia sicuramente, ma la domanda che rimane è una: dove sono le canzoni? Probabilmente rimaste nella canna del fucile di Kurt Cobain, quando mise fine alla band in cui Dave Grohl suonava la batteria.
Iggy Pop, foto di Renato Cifarelli
Social Distortion, foto di Renato Cifarelli
Foo Fighters, foto di Renato Cifarelli