«Non posso dimenticare il primo emozionante incontro con Miles Davis o con Thelonious Monk, che in due ore non ha mai parlato; ma lo avevo davanti a me e non ho mai smesso di guardarlo. Il grande rapporto che avevo con Art Blakey, Elvin Jones e Stan Getz, i viaggi in bus con Mingus e le cene insieme… Ascolto jazz dal 1949. Ancora mi commuovo se ascolto Lester Young…».



Da questa recente dichiarazione di Carlo Pagnotta, direttore artistico di Umbria Jazz, traspare tutto l’amore per il jazz e i suoi protagonisti. Sta qui il segreto di questo grande Festival che raduna ogni anno migliaia di spettatori che arrivano da tutta Italia e dal mondo intero. Un festival dove passione e professionalità si fondono dando vita a una vetrina che, sin dalla prima edizione del 1973, offre jazz in tutte le sue varianti e contaminazioni con altri generi.



L’edizione di quest’anno è dedicata all’Unità d’Italia e alle donne. Grande successo di pubblico e critica nella prima serata che ha visto protagonista Caro Emerald (una delle più belle esibizioni del Festival ci ha confidato Franco Fayenz) seguita dal Dee Alexander’s Evolution Ensemble vera rivelazione del Festival alla luce del successo ottenuto anche con le esibizioni all’Oratorio di Santa Cecilia. Se in giro per il mondo, in questo momento di stasi del jazz, c’è un progetto, un gruppo interessante, state pur tranquilli che Umbria Jazz non se lo lascia sfuggire.

Tutto esaurito per l’esclusiva italiana del “Tribute to Miles”, progetto presentato da tre discepoli del grande trombettista: il bassista Marcus Miller direttore musicale, Wayne Shorter ai sax ed Herbie Hancock al piano e tastiere. Ne valeva la pena, concerto di gran classe, molta concentrazione, uno Shorter ancora monumentale e un Hancock essenziale. «Stasera – spiega Miller – proporremo una panoramica dei vari momenti della produzione di Miles». Ecco percorsi anni di musica da Wallin’ a Milestones, da All Blues a Footprints, fino a Tutu e Time After Time



Molta emozione e anche commozione nel ricordo di questo grande del jazz, innovatore, spesso inviso, con la sua svolta elettrica, da certa critica (anche italiana) bacchettona e reazionaria. Buono il batterista Sean Rickman, di poca personalità Sean Jones alla tromba. Una nota di merito a Marcus Miller per la maestria, il gusto con il quale si cimenta al basso elettrico, segno di una grande e definitiva maturazione artistica.

– La serata è stata aperta dalla pirotecnica pianista giapponese Chihiro Yamanaka. Dicevamo festival dedicato alle donne. Eccellenti i concerti pomeridiani all’Hotel Brufani che hanno visto protagoniste Anat Cohen (clarino e sax) con il suo quartetto e la bravissima sassofonista Tia Fuller alla guida di un quartetto tutto al femminile che ha riscosso applausi a scena aperta (eccellente alla batteria Shirazette Tinnin). Buona anche l’esibizione della Minelli che ha proposto il suo repertorio più classico.

– In buona salute il jazz italiano che, a dispetto del momento di appannamento a livello mondiale, appare quanto mai vivo con proposte di grande interesse. Fra le più convincenti il duo composto da un principesco Danilo Rea al piano, coadiuvato dalla splendida tromba di Flavio Boltro, il Fabrizio Bosso Quartet, con il leader in crescita esponenziale. Bene anche due nomi storici del nostro jazz: Claudio Fasoli e Franco D’Andrea oltre al chitarrista Nicola Mingo con il suo progetto dedicato al leggendario trombettista Clifford Brown “We Remember Clifford” titolo dell’album appena pubblicato per la EmArcy.

A seguire Gabriele Mirabassi, l’interessante Marco Tamburini, Rosario Giuliani, Dado Moroni. Insomma tanta buona musica. Presentati anche alcuni nomi nuovi come il giovane sassofonista Mattia Cigalini, Max Ionata, Simona Severini, Francesco Bearzatti e ancora l’ottimo Giovanni Guidi Quintet, Tubolibre di Gianluca Petrella, grande del trombone, conferma anche per Stefano di Battista con il suo “Woman’s Land”.

Quindi tante buone notizie, un jazz nostrano in buona salute anche se sarebbe bello dare spazio ai tanti talenti formatisi nei corsi di jazz dei vari Conservatori italiani. È nostra opinione, infatti, che si potrebbe fare qualcosa di più per i giovani musicisti. Ad ogni modo ai Giardini Carducci si sono esibiti i migliori allievi presenti a Perugia per gli storici corsi della Berklee. Ottimi i concerti di Branford Marsalis e Joey Calderazzo, di Hiromi e di Ahamad Jamal, che hanno un po’ sofferto dell’assenza di pubblico nell’Arena Santa Giuliana, troppo grande per il loro seguito.

– Serata clou quella di Santana e la sua band, grande successo di presenze e di pubblico. Qui vacilla la nostra passione di una vita. Gli anni passano e la mano perde di brillantezza, anche, forse, per la poca voglia di studiare lo strumento; ci può stare. Ma volendo approfondire, tutto lo spettacolo ha avuto un senso di sbracatezza e poca professionalità. Per buona parte del primo pezzo la chitarra non si è sentita (a che servono le prove?), Santana in alcuni passaggi ha cercato di mascherare il suo calo di forma, con scivolamenti e tecniche non ortodosse, una volta appannaggio di assolo lancinanti e ispirati. C’è chi ha detto “non comunica più, né quando suona, né quando parla, una delusione, Carlos ha perso la sua luce…”.

Apertura con Spark of Divine, Black in Black degli AC/DC tratto da “Guitar Haven”; Oye Como Va, Maria Maria, Corazon Espinado hanno portato il pubblico in una gigantesca festa centro americana merito della granitica sezione percussiva con Karl Perazzo e Raul Rekow allievo del leggendario e amatissimo Armando Peraza. “Armando è vicino ai novant’anni – ci ha detto Rekow – gode  di buona salute e soprattutto sa dell’affetto dei suoi vecchi fan”.

Unico momento di grande emozione la proiezione sul megaschermo di immagini che hanno raccontato la storia della Santana band. Un autentico sussulto ha permeato il pubblico all’apparire delle immagini tratte da Woodstock con il grande Micheal Shrieve alla batteria. Altri tempi, altra musica, come quella nata dalla collaborazione con John McLaughlin, nel pieno del periodo “mistico” di Santana. Arrangiamenti dilatati, imprecisioni di ogni genere, culminate con l’arrivo sul palco della nuova giovane moglie che, per un brano ha preso il posto di Dennis Chambers alla batteria; lungo assolo, ammiccamenti (opera del bassista Benny Retvield con citazioni di brani italiani) e gran finale (si fa per dire) con presentazione della moglie, appassionati baci inclusi.

A metà esibizione ulteriore chicca con festa di compleanno sul palco con torta, candeline, fiori e chitarra in regalo per un fotografo della troupe. L’augurio è che l’ottima aria di Perugia e la verde campagna dell’Umbria abbiano ristorato Santana che, siamo certi ci regalerà ancora tante emozioni.

– Sergio Mendes, protagonista del concerto di Giovedì 14 luglio ci dedica qualche minuto, di ritorno da una passeggiata con la moglie Gracinha Leporace (di origine calabrese). Gentile, affabile con buon sense of humor, anche in abiti informali mantiene intatta la sua eleganza, sottolineata dal bel panama indossato. Abbiamo di fronte un colosso della musica. È uno dei grandi della musica brasiliana, che ha venduto più dischi di tutti, proprio Mendes con il suo trasferimento a Los Angeles avvenuto nel lontano ’64 ha contribuito a far conoscere i ritmi brasiliani nel mondo. Dopo aver collaborato con Antonio Carlos Jobin e João Gilberto, una volta negli States ha raggiunto il successo con i Brasil ’66 vendendo in carriera milioni di album. Pianista e arrangiatore, non ha mai disdegnato di sconfinare in altri generi, avvicinandosi alla fusion e all’hip hop. Nelle sue band tanti grandi da Oscar Castro Neves a Dom Um Romão (poi nei Weather Report), Jorge Ben, Sebastão Neto, Airto Moreria, Heitor T Pererira, Diana Reeves.

«È incredibile ancora oggi quanta gente come te mi racconta che, dopo aver ascoltato i miei dischi da giovanissimo, si è avvicinata alla musica brasiliana, sviluppando poi la conoscenza della buona musica (mentre parla Mendes sta predisponendo una dedica per il vostro recensore su “Fool On The Hill” del 1968)… Ho sempre cercato di non fare il verso a me stesso, cambiando abito ai miei brani anche quelli più conosciuti come Mas Que Nada, avvicinandomi anche a generi apparentemente lontani dal mio come l’hip hop. Non puoi suonare un brano sempre alla stessa maniera …

Luigi Viva e Sergio Mendes

In questo periodo sono interessato alla musica che viene dalla Cina e dall’india anche se… – si interrompe un attimo sapendo di darci una ghiotta anteprima – proprio qui a Perugia ho avuto modo di incontrare Carlos Santana il quale mi vorrebbe come ospite nel suo nuovo album, gli ho dato il mio gradimento anche se ancora non sappiamo se sarà una collaborazione ampia oppure limitata a un solo brano».

La serata brasiliana di Umbria Jazz vedrà protagonista Gilberto Gil e appunto Sergio Mendes. L’apertura di Gil è bella e trascinante incentrata sulla musica nordestina del Brasile; l’ex ministro della cultura brasiliana fa opera di divulgazione; il pubblico balla e si diverte guidato da un Gil in gran serata. Non è certo facile esibirsi dopo un riscontro di pubblico così caloroso. Sergio Mendes si produrrà invece in uno strepitoso concerto. A ogni brano racconta brevemente le sue esperienze e introduce le varie canzoni: brani di Dorival Caymmi (Milagre/samba da minha terra), Agua De Beber di Antonio Carlos Jobim, e tanti altri brasiliani come Gilberto Gil, Joao Donato, Carlinhos Brown; è un susseguirsi di emozioni. Praticamente da solo, al piano, accompagna la moglie Gracinha Leporace in una splendida versione di O que sera di Chico Buarque.

Gilberto Gil e Sergio Mendes

Band serrata, arrangiamenti calibrati, momenti di improvvisazione guidata dall’abilissimo leader, che si esibisce anche alla voce coadiuvato dal coro delle tre vocalist che, oltre alla Leporace, include Rozzi Crane e Katie Hampton. La fusione delle voci femminili è quella di sempre, distintivo marchio di fabbrica della band. The Look of Love, Mas que Nada (cantata con il rapper H20), Pais Tropical, è un crescendo di successi, con l’Arena Santa Giuliana in piedi a ballare ribadendo il successo di Mendes e del suo gruppo nel quale meritano una particolare citazione il batterista Michael Shapiro e il percussionista Gibì.

– Amplificazione triplicata, clima da discoteca, luci stroboscopiche, effetti, potenza di suono, una cassa che sconquassa lo stomaco con Stratus tratto dal primo album di Billy Cobham ecco in scena Prince nella sua unica data italiana del “Welcome To America – Euro Tour 2011”. Affascina e conquista grazie all’innato carisma, la devastante potenza prende e coinvolge, buona la presenza di pubblico seppure inferiore a Santana. Santa Giuliana diviso in due: tribuna compassata e platea (posti in piedi) che balla. People Get Ready, The Look Of Love, Foxy Lady classico di Jimi Hendrix, Crimson & Clover, Prince sembra voler mostrare i muscoli reinterpretando la musica degli altri. 

Simpatico anche se distaccato, front man eccellente, buon chitarrista ma nulla più, ha dalla sua la genialità della proposta dello show con le fascinose presenze femminili sul palco che sembrano uscire da Eyes Wide Shut di Stanley Kubrik: ben cinque, fra le quali si è contraddistinta la formidabile bassista Ida Kristine Nielsen. Bel concerto dove digitale e effetti si fondono con l’analogico (Hammond con tanto di Leslie in plexiglass). Un’altra bella serata che ha incuriosito anche chi di Prince non è ammiratore.

– L’onore della chiusura delle due ultime giornate al grande B.B.King e al sound latino di Eddie Palmieri, Michael Camilo, Chuco Valdes. Buono il bilancio anche per la leggenda vivente del blues: voce poca, ma la chitarra c’è ancora. L’arena esaurita è stata il giusto riconoscimento alla carriera e al mito. Ha fatto quello che doveva fare, nella storia.

E così anche questa è andata: bel festival, gran successo di pubblico con l’arrivederci a fine anno a Orvieto per Umbria Jazz Winter (dal 28 dicembre al primo gennaio).