La stampa nazionale dà poca attenzione ai “teatri di tradizione”; una trentina (precisamente 28) di solito in città, oggi di media importanza, ma che in passato furono capitali di granducati, ducati, pure regni. Sono localizzati principalmente al Nord (il 61% del totale), il 25% è al Centro, il 14% al Sud e nelle Isole. Sono finanziatiprincipalmente daglienti locali (gravano sul Fus unicamente per il 4% circa del totale del fondo).



Le risorse statali sono meno della metà del finanziamento complessivo dei “teatri di tradizione”. Le imprese, spesso dell’area, forniscono mediamente una cifra pari al 24% delle risorse totali per il loro funzionamento. Un’analisi dettagliata di un campione di dieci “teatri di tradizione”, condotta dalla Università Bocconi, ne loda, in linea di massima, la gestione, evidenziando in particolare gli effetti positivi dei “circuiti” creati (spesso  su base regionale) per dividere i costi di produzione degli allestimenti e delle scritture, nonché per ottimizzare coro, orchestra e mimi… La loro situazione debitoria è sempre stata sotto controllo (con alcune eccezioni – ad esempio, il Teatro Massimo Bellini diCatania, ora in via di risanamento). I costi degli spettacoli sono contenuti.



È proprio il Teatro Massimo Bellini che mostra chiari segni di svolta. Non si tratta di un teatro secondario: è riconosciuto come quello con la migliore acustica in Italia e una delle più perfette in Europa. Per questa ragione, ad esempio, Dame Joan Sutherland e suo marito, il direttore d’orchestra Richard Bonynge, lo hanno scelto per lustri come la loro sala di registrazione favorita.

Accanto a una nutrita stagione sinfonica, la stagione lirica e sinfonica, inaugurata il 15 gennaio con un nuovo allestimento di “Carmen” di Georges Bizet, prevede sette titoli (tutti del repertorio tradizionale) e un vasto impiego di cantanti giovani (e internazionali). Il duplice obiettivo è controllare i costi e attirare le nuove generazioni: alla “prima” di “Carmen” la Prefettura ha ceduto il proprio palco di funzione a un gruppo di liceali meritevoli (in seguito a un mini-concorso). Gli abbonamenti (sette turni) sono aumentati del 20% rispetto alla stagione 2011. Un buon segnale.



Secondo i sondaggi periodicamente condotti dal “Metropolitan Opera News” (il settimanale Usa del melodramma), “Carmen” è stata per decenni l’opera più ascoltata e forse più vista al mondo. Soltanto di recente è stata superata dal “Don Giovanni” di Wolfgang Amadeus Mozart. Sino a tempi recentissimi, la si presentava nell’edizione messa a punto per l’Opera di Vienna nel 1875 dal mesteriante Ernest Guiraud che aveva non solo musicato le parti parlate ma rimaneggiato, malamente, l’orchestrazione.

Nell’allestimento in scena a  Catania  sino al 25 gennaio, viene offerta come la compose Bizet: l’orchestrazione è l’originale, più ruvida di quella taroccata da Guiraud, ma più affascinante. Date le difficoltà di dizione del cast internazionale, le parti parlate sono accompagnate (dalla partitura di Guiraud) come Bizet si era impegnato a fare  nel contratto con Viena che non poté assolvere a ragione della sua prematura improvvisa morte. Non ha nulla del colore “verista” delle “Carmen” che imperversavano sino alla fine degli Anni Ottanta.

Da un lato, richiama i madrigali (il quintetto del secondo atto) e, dall’altra, è protesa verso un espressionismo che mai prese radici in Francia, ma creò una grande scuola in Germania. La messa in scena di Vincenzo Pirrotta, noto regista di teatro (specialmente di tragedie greche) ci porta in una Spagna lontana dal technicolor ma grigia, marrone e bianca (intramezzata da rossi scuri); un clima, quindi, espressionista più che folkoristico.

Semplicissima la scena; teloni su cui le luci proiettano le “tinte” della partitura, tavoli di legno di campagna inizio Novecento, sedie di paglia. Ma una grande azione drammatica con effetti stereofonici dato che a volte personaggi e coro entrano dalla platea o cantano dai palchi. Pirrotta immagina un’azione che ruota attorno al concetto di “richiamo della carne”: “Carmen è indubbiamente un’opera – ci dice – dove, anche se scorrerà solo alla fine, e qui il senso di tragedia moderna si sviluppa completamente, l’odore del sangue aleggia nell’aria. In Sicilia, quando il richiamo della carne è talmente forte da sconvolgere i sensi, si dice della persona che lo provoca: “Mi fa sangu”; è il sangue che ribolle, dunque, che fa perdere la testa. Carmen “fa sangu ed è consapevole di questo, ci gioca, è la sua vita”. Non mancano accenni ai rituali di mafia nel finale del secondo atto e nel terzo.

Nota la vicenda: alla “femme fatale” Carmen, divoratrice di uomini e distruttrice di se stessa, viene giustapposto  Don José, buon ragazzo della Navarra, ma traditore della sua dolce Micaela prima di venire lui stesso tradito dalla protagonista con il torero Escamillo. La dizione è appena accettabile (ottima però quella della protagonista). La concertazione di Will Humburg (noto tra l’altro perché ha completato il “Ring” wagneriano a Roma dopo l’improvvisa scomparsa di Giuseppe Sinopoli), è curata nel dettaglio, piena di vigore e di “tinta”. 

Intercetta a pieno le finezze dell’orchestrazione originale (che delizia l’assolo del flauto nell’intermezzo!). Carmen è una felina Rinat Shahan, piena di temperamento e ardita nelle tonalità gravi, Don José è Vsevolod Grivnov più a suo agio nei momenti dove domina la melodia che in quelli “spinti”. Maschio ed attraente, l’Escamillo di Homero Pérez-Miranda, spagnolo. Viene dalla Moldavia Tatiana Lisnic (Micaëla) già affermata come buon soprano lirico di coloratura. Si meritano un plauso il coro e i caratteristi nella mezza dozzina di parti formalmente minori, ma essenziali al clima dello spettacolo.

Il pubblico della prima ha applaudito la parte musicale, ma parte degli spettatori si aspettavano un costoso colossal alla Zeffirelli: sono rimasti delusi dall’allestimento a basso costo, innovativo ed efficace. Una messa in scena esemplare, che ha entusiasmato i giovani in sala e merita di essere ripresa da altri teatri. In Italia e all’estero.