“This is a concert review of THE BLACK KEYS. The name of this city is TURIN”. Così probabilmente avrebbe intitolato questa recensione il duo di Akron sulla base del format dell’originalissima copertina dell’album “Brothers”. Per l’unica tappa italiana del nuovo tour mondiale del gruppo americano siamo al Palaolimpico di Torino, palazzetto dello sport che può ospitare circa quindicimila persone e che per l’occasione è gremito in ogni ordine di posto. In questi ultimi anni i Black Keys hanno messo tutti a ko grazie ai colpi vincenti e in rapida sequenza di “Brothers” e di “El Camino”.



I Black Keys sono tra quanto di meglio l’industria musicale abbia prodotto negli ultimi dieci anni. Da band indipendente di culto a mainstream di tendenza di massa capace perfino di fare incetta di Grammy Awards. Tre per l’esattezza: miglior album della categoria alternativa, migliore performance rock e miglior packaging. Non male per chi come loro non ha ceduto a compromessi, o almeno questa è l’impressione che vogliono dare. L’aria stranita e l’aspetto da nerd sono parte integrante del confezionamento del prodotto finale. La ricetta è semplice: voce/chitarra più batteria. Il blues è la loro radice e la passione per il rock’n’roll è la linfa vitale. Lo stile del combo composto da Dan Auerbach e da Patrick Carney si è evoluto e si è contaminato rispetto al loro album di esordio nel 2002. Il blues torrido e ruvido che ne caratterizzava il sound si è arricchito di uno stile più rockabilly e rock’n’roll ovviamente.
I maligni diranno che i Black Keys non hanno inventato alcun genere musicale nuovo (vero); che sono stati furbi a catturare i favori del pubblico con motivetti orecchiabili (vero), con cori ammiccanti (vero) e con uno stile volutamente vintage (vero); che i testi sono banali (vero) e che l’accoppiata batteria-chitarra è un fac-simile dei White Stripes (falso). Eventualmente i Tasti Neri (del pianoforte) si possono accostare alle Strisce Bianche (di cosa?…) solo grazie al rimando a un colore in entrambe i nomi. Nell’insieme il risultato è unico. Come loro nessuno mai, la miscela generata è micidiale e ottimamente cool. Anche in Italia la loro fama è in crescita esponenziale. Nel 2008 un’apparizione ai Magazzini Generali (con gli Okkervil River supporter per intenderci) nei mesi antecedenti l’uscita di “Attack & Release”. Qualcosa d’importante si era già mosso. Quindi la consacrazione con il sold out dell’Alcatraz di Milano di qualche mese fa. Ai fortunati presenti di allora le orecchie ancora oggi rimbombano tanta fu l’onda sonora sprigionata.



Dopo una breve apparizione della band supporter, gli inglesi Maccabees, la scena è tutta per i Black Keys la cui uscita sul palco è anticipata da un’ola da stadio.  Il duo apre con il martellamento incessante e ritmato della hit radiofonica Howlin’ for You. Da, da, da, da, da (non è una cover dei Police…) si fa sentire il pubblico che risponde in coro al canto stile hip-hop di Dan Auerbach e venato da sonorità synth-pop. A ruota Next Girl dal ritmo funky sempre tratta da “Brothers”. Patrick si asciuga la fronte e per comodità si sfila gli occhiali da Buddy Holly che rimarranno riposti nella custodia per tutta la serata e si scatena sulle note selvagge di Run Right Back. 



Same Old Thing è intensa, ma è con Dead and Gone che il pubblico riprende a cantare e a saltellare. “El Camino” ha favorito un successo planetario ed è quindi il principale bacino da cui sono tratti i brani della serata. Gold on the Ceiling è un’esplosione vera e ogni suono di batteria è un colpo di cannone. Dan si spoglia della giacchetta bianca ed esegue l’unico vero ritorno al passato della serata ovvero Thickfreakness, un blues detonante e rudimentale. Girl Is on My Mind da “Rubber Factory” è in versione lento ed è anticipata dall’unico assolo di chitarra della serata. Il sound secco e diretto di Your Touch si trasforma in un frastuono avvolgente e distorto di suoni e di luci.  Accecati e frastornati si ha l’impressione di ritrovarsi immersi in un concerto dei Led Zeppelin versione 2.0. Little Black Submarines viene presentata ripartita in due tracce separate (come in effetti è stata inizialmente concepita). Intro lento e country per la prima parte folk, in cui il pubblico contribuisce all’ottima riuscita canora. Per l’esecuzione della parte elettrica invece ha luogo un rigoroso cambio di chitarra e un nuovo ingresso del bassista Gus Seyffert e del tastierista/chitarrista John Wood che già avevano accompagnato l’esecuzione dei primi brani nell’oscurità della parte posteriore del palco. 

Ogni brano proposto si presta bene e sembra essere fatto apposta per un’interpretazione dal vivo. Non è un caso che nella fase di produzione ogni canzone nasca da un’incisione live, in cui gli stessi Dan e Patrick aggiungono sovra incisioni di altri strumenti quali il basso, le percussioni e l’organo.

Money Maker è un classico garage rock mentre con Strange Times in una versione accelerata e rallentata ad arte assistiamo ad un esibizione dei Black… Sabbath di Akron. Le canzoni incalzano con ritmo: Sinister Kid, Nova Baby e Ten Cent Pistol. Quest’ultima, con continui stop and go è eseguita in una versione intima e quasi sofferta. 

La scenografia è essenziale, giusto un mega pannello che arricchisce il palco e che proietta differenti immagini di arte grafica, di città in stile Western e riproduzioni in tempo reale dei Keys in azione. Durante il ruvido blues She’s Long Gone addirittura una porzione di schermo fornisce un’inquadratura singolare proveniente da una videocamera fissa posizionata a ridosso di un charleston della batteria di Patrick. Follia pura!

Con Tighten Up l’impianto multifunzionale ideato da Isozaki si trasforma in una fauna protetta con quindicimila che fischiettano al comando di Danny “zufolaio magico” Auerbach. Lonely Boy, la più attesa, viene accolta con un boato ed è una bolgia totale. I Black Keys hanno offerto proprio quello che la gente voleva vedere: uno show vulcanico e trascinante.

Se proprio vogliamo trovare una pecca, lo spettacolo si è limitato a venti brani (che di per sé non sono pochi) per un totale di neanche novanta minuti. Non solo, la scaletta di brani proposta si è rivelata esattamente la medesima di tutte le date precedenti. Mancanza di idee? Niente paura, a gennaio il duo si riunirà in studio per la lavorazione del nuovo album.

Pertanto spazio ai due encore previsti e dall’altro scende una mirror ball gigante che sprigiona luci e colori durante l’esecuzione di Everlasting Light caratterizzata dalla voce in falsetto di Dan.

Ci si prepara per il gran finale e mentre la scritta luminosa “The Black Keys” si abbassa sul palco, ecco la straripante I Got Mine che si eleva nella stratosfera terrestre. I Black Keys sono Dan Auerbach e Patrick Carney. Se ci fossero ancora dubbi, è due il numero perfetto.