Una lunga fila di persone attende al freddo, si entra un po’ alla volta. Da diverse settimane il concerto dei Black Keys all’Alcatraz di Milano è tutto esaurito. E’ uno degli eventi musicali più attesi del nuovo anno, la caccia al biglietto negli ultimi giorni era diventata una sorta di barzelletta metropolitana: a Milano tutti ne volevano uno, o almeno così sembrava.
All’interno si addensano i fan a ridosso del palco, c’è anche una schiera di spettatori in abito da legionari romani (capiremo alla fine perché). Accompagna l’attesa la musica soul di Wilson Pickett e dintorni.
E non è un caso, visto che nelle vene dei Black Keys pulsa il sangue delle radici. E da sempre, chi fa rock, se lo fa sul serio, ruba la musica all’anima nera d’America. Il fenomeno di questo duo proveniente dall’Ohio, sulle scene in America da una decina di anni, è esploso in Italia improvvisamente in tempi recentissimi, segno di una fame verso certa musica rock essenziale, diretta ed emozionante che torna a far capolino fra gli appassionati.
La performance inizia con Howlin’ for You seguita da Next Girl. Non c’è ancora completo feeling tra palco e pubblico, ma la spregiudicatezza della distorsione della chitarra elettrica e la decisione con cui viene percossa la grancassa della batterà fanno ben sperare. Tra una canzone e l’altra poche parole, solo veloci ringraziamenti e una richiesta di scuse per avere iniziato in ritardo. Il duo proveniente dall’Ohio è essenziale, i brani suonati a volumi esagerati (gli amplificatori di chitarra sono girati verso l’esterno del palco) e la carica che hanno addosso è contagiosa. Ogni canzone ha il riff e il ritmo giusto, il groove non manca e il compartimento basso-organo (suonati rispettivamente dai turnisti Gus Seyffert e John Wood) tiene in piedi l’impalcatura lasciando spazio alle sbavature di Daniel Auerbach (voce e chitarra) e Patrick Carney (batteria).
L’impressione è quella di una fresca e inaspettata vitalità, la musica ha delle chiare e manifeste referenze, ma nell’insieme i quattro sul palco propongono una sonorità nuova, curiosa. Il suono pungente del basso, distorto in un modo decisamente barbaro, basti da esempio.L’unico momento di respiro si ha con Little Black Submarines, ballata dalle sonorità degli Animals del periodo di The House of the Rising Sun (non ci si può girare troppo attorno), si riprende con le note di Money Maker; e così due perle dell’ultimo lavoro se ne vanno.
Dietro i musicisti, tre grandi schermi proiettano immagini ruvide e scarse di colori, di un’America sconosciuta.
Arriviamo al gran finale con Tighten Up e Lonely Boy (e sempre rimane la domanda “ma come diavolo fa?!” per il giro di chitarra che non si fa smentire), quest’ultima suonata così veloce che sembra un pezzo dei Ramones.
I ragazzi salutano, ma la folla acclama la band sul palco, sul quale giganteggia un enorme palla luminosa, ed eccoli riprendere possesso del palco con una divertente Everlasting Light a cui seguono Long Gone e I Got Mine, il cui finale viene prolungato oltremodo e da spazio all’ultimo gioco della scenografia. Il nome del gruppo illuminato ricorda l’entrata a uno spettacolo circense. Il pubblico apprezza, perché, insieme ai Black Keys si è divertito e ha goduto di una fresca e unica performance di rock’n’roll made in Usa.
(Giovanni De Cillis)