“Well, you wonder why I always dress in black…” cantava Johnny Cash nel lontano 1971 per spiegare con grande poesia e originalità le ragioni delle sue scelte di stile. “Give us a smile” è la richiesta sarcastica proveniente dal pubblico dell’02 Shepherd’s Bush Empire 40 anni dopo. Sul palco, impassibile e compassato Mark ”Man in black” Lanegan.
Un passo indietro. Ci troviamo a Londra per un’anticipazione di quello che sarà l’appuntamento italiano (Bologna 24 e Milano 25 marzo) del tour mondiale della Mark Lanegan Band. Sopravvissuto dell’era grunge, leader degli Screaming Trees, cantante dei Queens of the Stone Age dal 2000 al 2004, partner artistico di Isobel Campbell e dei Soulsavers, Lanegan vuole dimostrare di avere trovato una rinnovata identità con questa formazione. L’attesa è tanta e i 2mila tagliandi disponibili per l’unica tappa londinese sono esauriti da settimane. Il parterre è talmente colmo da rendere epico perfino l’accesso ai banconi della birra. Luci soffuse e la Mark Lanegan Band, composta di cinque elementi di nero vestiti, conquista silenziosamente il palco. Senza preamboli il cantautore di Ellensburg (Usa) guadagna il centro della scena (che gli darà ospitalità per l’intera sessione) per posizionarsi curvo sull’asta con il microfono inclinato.



L’apertura è riservata al ritmo inquietante e funesto di “Gravedigger’s Song” la canzone del becchino, una riconferma del clima tetro della serata. C’è poco da stare allegri e il pubblico è avvisato: “Tutto è nero, amore mio, tutto è bianco, ti amo, amore mio, come amo la notte” esegue in francese con voce roca il quarantottenne guerriero del grunge. Del resto si tratta del Blues Funeral tour, in cui buona parte delle canzoni oggetto della performance sono tratte dall’ultima fatica (sofferenza) dell’ex leader degli Screaming Trees. Si torna indietro di una decina d’anni ed è la volta di un poker d’eccezione: “Sleep with me”, “Hit the city”, “Wedding dress” e “One Way Street”. Se Hit the city è incalzante e furiosa, Wedding Dress è dolente e ipnotica. One Way Street è ammaliante e melodiosa in cui il timbro di voce cupo e baritonale di Lanegan esprime il meglio: “I drink so much sour whiskey I can hardly see”.



In un Funerale Blues che si rispetti una “Resurrection Song” è l’aspirazione più profonda e intensa del cuore umano. “Wish you well”. Un augurio? Un sospiro di sollievo? No, “Grey goes black”. Il vissuto è la vera fonte d’ispirazione. Mark Lanegan ha toccato davvero il fondo. Un incidente stradale che ha rischiato di stroncargli la vita, la dipendenza dal crack e dall’eroina, l’abuso di alool, il vagabondaggio e poi ancora l’imprigionamento per reati legati all’uso di sostanze stupefacenti e la successiva riabilitazione. È quindi la volta dell’ottima e torrenziale “Crawl Space” degli Screaming Trees, con tinte  e sonorità psichedeliche, “One Hundred days” una stupenda ballata che rimanda a Nick Cave e successivamente spazio per l’unica cover della serata “Creeping Coastline of Lights” dei Leaving Trains. Peccato, avrei ucciso pur di sentire “The Man in the Long Black Coat” di Dylan che Lanegan ha inciso per la colonna sonora del film I’m not there.



Chiusura del set ricco di pezzi dell’ultimo album che con il blues hanno poco a che fare, ma che piuttosto richiamano a sonorità gospel, elettriche e dark. Manca purtroppo “Bleeding Muddy Water”. Molto apprezzata dal pubblico è “Ode to sad Disco” che con i suoi suoni apocalittici e i rimandi nostalgici trasporta l’immaginazione a una sala da ballo in stato di abbandono in cui nemmeno la mirrorball luccica più. Un ringraziamento appena accennato con la testa e riecco nuovamente i ”tutti neri” per un mini set di 4 encore: la lancinante “When your number isn’t up” tratta da Bubblegum e la nuova “Harborview Hospital” dai richiami Brit Pop.

Il vero gioiellino della serata è però “Pendulum” in cui Lanegan fa l’occhiolino a Johnny Cash. Tratta da Whiskey for the Holy Ghost  del 1994, ha la sua forza nella semplicità melodica e nel testo di immediato impatto: “Jesus Christ been here and gone, what a painful price to pay, he’s left his life in a thunderstorm, tears cold dark eyes upon”. C’è tutto il dolore dell’abbandono, ma manca il significato salvifico. La Passione, ma non la fede nella Resurrezione. Il suono sporco di “Methamphetamine blues” chiude la serata in cui finalmente Lanegan scaccia i demoni di Johnny Cash (“…till things are brighter, I’m the Man in Black…”) e trova conforto nel suo paradiso: “Rolling just to keep on Rollin’, I don’t want to leave this heaven so soon”.

(Lorenzo Randazzo)