«Quando il cuore è convinto non sbagli mai»: inizia così Vorrei dei Marta sui tubi. E invece il cuore sbaglia, lo sappiamo: certe volte è proprio convinto, e sbaglia alla grande. Non solo non c’è nessuno che non abbia mai sbagliato: è che, quando sbagliamo, molto spesso non lo facciamo neanche apposta: «distratta distruggi ogni cosa». Però è qualche secolo che alla nostra coscienza normale sfugge l’antico dolore di vedere e approvare le cose migliori e seguire invece le peggiori («video meliora proboque, deteriora sequor», scrive Ovidio). Il cuore «convinto», l’importante è crederci, ci dicono. Solo che, più che di essere convinti, cioè di suggestionarci, abbiamo bisogno di certezze.
Per esempio mi serve la certezza di qualcuno che perdoni i miei sbagli. Perché, quanto a sbagliare, i Marta sui tubi lo ammettono subito dopo: «Chiedo perdono a ognuna delle lacrime che non ho bevuto». Ed è già tanto: è rarissimo vedere un uomo che piange, e ancora più raro è vederne uno dispiaciuto di non aver bevuto questo pianto, di averlo asciugato troppo presto, senza cogliere la perla nascosta in quelle lacrime. Il cuore si muove di continuo, senza nemmeno riuscire a esprimere quanta mancanza c’è nei «dischi che non capirai, i libri che non leggerai», come accenna l’altra canzone, Dispari.
Noi ci convinciamo, e spesso ci sbagliamo, tanto distratti da non prendere sul serio il dolore che proviamo. E ci sentiamo infinitamente sproporzionati: «Dormi qui, sono piccolo per abbracciare il cielo, dormi qui, troppo grande per volarci dentro». Certo che siamo piccoli, ma non meritiamo meno del cielo: noi siamo troppo piccoli «per abbracciare il cielo», è vero, ma non sarebbe meglio, anziché rinunciare alla grandezza di un «folle volo», chiedere al cielo che venga lui ad abbracciarci? Che la sua grandezza abbracci la nostra piccolezza? Che in qualche modo ci voli dentro, col respiro dell’immenso dentro il cimento dell’istante?
A me non basterebbe un «dormi qui»: mi sembrerebbe troppo poco chiedere a una persona, piccola come me, quello a cui solo l’immensità del cielo potrebbe rispondere. Anch’io «vorrei, vorrei ancora più bellezza», ma non sono persuaso di trovarla col «prenderti le mani e berci dentro». Vorrei bere da mani più grandi, molto più capaci di abbracciare, vorrei bere da una cascata, o da un oceano.
Cercherei lì, ma so che potrebbe sembrare sconfinato e tuttavia troppo vago. Un po’ come chiedere al vento: «Prova a chiedere al vento quello che vuoi», dice ancora la canzone. Ma, in effetti, chi perdona non si sa, e il vento, poi, risponde? «Tu dici che la risposta è nel vento, amico mio. È vero: ma non è un vento che spazza via le cose», disse una volta Giovanni Paolo II a proposito di una canzone di Bob Dylan.
Il vento non si vede ma c’è. Ci vorrebbe un vento che, oltre a esserci, si vedesse. Chissà, forse come un vento che arriva come un amico. Folgorante l’inizio di Dispari: «Complimenti per gli amici, ma quanti amici hai?». Osservazione facebookiana. Che mi fa tornare in mente, come una folata improvvisa, una mia ex alunna, duemila e passa amici su Facebook. E nemmeno uno di fronte a cui poter svelare davvero il suo cuore. Se ne vergognava. «Come una cipolla che non sa far piangere», forse soprattutto per la durezza di «chi ti loda e ti ammira» ma è sempre lì che «ti assale ti uccide, sempre lì in attesa di un tuo sbaglio di una fuga o resa». Non so se si sentiva «dispari», ma le era capitato di intuire quella tremenda illusione di essere così distratta dagli amici intorno da non avvertire più nemmeno la ferita della solitudine. «Siamo alla solitudine di gruppo, / un fatto nuovo nella storia e certo / non il migliore», osservò Montale. «Non soffro se mi sento solo», cantano amari i Marta sui tubi. E magari qualche volta tornassimo a soffrirlo, per riscoprire che cosa ci manca davvero.