Il titolo Dannati forever evoca una rima triste e dantesca: inferno-eterno. «Sono troppi i peccati mortali che ho collezionato»: Elio li elenca minuziosamente, dal «continuamente pisello toccato» all’«accidentalmente assassini la gente». «Come ti muovi ti imbatti in un peccato», insomma. Ed è anche vero che siamo continuamente peccatori (detto poi nel giorno delle Ceneri!), non fosse che le parole decisive della canzone – «peccato» e «inferno» – risultano svuotate rispetto a come la tradizione ce le ha consegnate per un paio di millenni. Come un gelato sciolto di cui rimane solo lo stecchino: nel peccato non c’è ombra di dolore, e l’inferno è nulla più che una favoletta, senza «etterno dolore»«perduta gente». Non ci si pente né ci si brucia, non c’è nessuno che si è perso davvero né una lacrima per la pochezza che siamo, è fuori dall’orizzonte giudicare quello che facciamo, perché non c’è criterio rispetto a cui qualcosa possa chiamarsi «peccato»: ognuno fa semplicemente quel che gli pare. Il «fuoco eterno», la «vita d’inferno» sono concetti con cui giocare, puro divertissement, ed è l’intuizione linguistica in cui il testo eccelle: dal «percorso di fede» assimilato al «jogging», al «gruppetto di dèi» che «nomini invano: pergiove, perdiana, perbacco, perdinci».



È una canzone di Elio, surreale e gremita di giochi di parole. Oltre che di giochi musicali, come nei virtuosismi della Canzone mononota, in cui l’esecuzione domina un testo soltanto funzionale, che si diverte a evocare cambiamenti di ritmo, velocità, atmosfera, accordi, e poi di cantante, argomenti, lingua e ottava. La canzone mononota è addirittura «democratica, osteggiata dalle dittature. Fateci caso: l’inno cubano è pieno di note, c’è poi il samba di una nota sola».



Eppure verrebbe da pensare, per la deformazione di chi si aspetta sempre una anche minima traccia di vero da ogni testo, che Dannati forever racconta proprio la verità, che somiglia tanto alla miseria dell’esistenza umana: «fatto adulterio, mentito, rubato», «pippi e ti dimentichi di santificare», «dopo una cena elegante all’improvviso fornichi». E viene in mente Calvino, quell’«inferno che abitiamo tutti i giorni» con cui si chiudono Le città invisibili, e il suo tremante suggerimento di «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno».

Ma qui – siamo seri – non c’entra un bel niente, c’è poco da scavare. E non dovrei nemmeno provare a dialettizzare o problematizzare, ovviamente, perché è solo l’immaginario a muoversi leggero, con l’inferno che è «come la Reggio Calabria – Salerno in agosto» e la «crema protezione totale contro il fuoco infernale» consigliata ai «nudisti ustionati»



A leggere il testo, i suoi scatti improvvisi e analogici, si tocca la classe di Elio e le storie tese (magari al liceo si imparasse a scrivere così!), che però mi pare abbiano avuto ai tempi di Cara ti amo e di Tapparella lampi più brillanti, e allora non riesco a togliermi dalla testa che c’è un modo di far passare per stupidaggini delle cose vere, ed è quello di guardarle con un occhio superficiale. Che è poi – è chiaro – l’intento della canzone: che può esistere proprio perché parole così profonde, che hanno segnato la vita di interi popoli, le sentiamo ormai slegate totalmente dall’esperienza che indicavano.

Nemmeno irrisorio, soltanto inconsapevole, il testo dimostra cosa significhi il calviniano «accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più». Credo si stia avvicinando il giorno in cui potremo pronunciare anche le parole “mamma”, “amico”, “amore”, “morte” senza che ci ricordino più nulla, senza vibrare di struggimento. Allora potremo ridere di tutto: non come persone ironiche, ma come persone stordite. Come chi ride, più che per un traboccare di pienezza, per le barzellette che racconta sull’orlo di un burrone. Per il dovere di ridere ad ogni costo. E sarà, appunto, l’inferno.