Tra gli otto giovani della 63esima edizione del Festival di Sanremo ci sono anche Paolo Simoni, con il suo brano “Le parole”, e Antonio Maggio, con “Mi servirebbe sapere”. Il testo della prima canzone esprime tramite un’efficace ripetizione, “Con le parole puoi…”, tutte (o quasi) le conseguenze che provocano le nostre parole. Si passa dalla distruzione, al gioco, fino alla commozione. La riflessione, però, non si ferma alla pura reazione del parlare. Vuole scavarne l’origine, “Quel fiato che non basta mai”. Le parole hanno un potere quasi magico, di tramutare gran parte delle sfumature umane, degli stati d’animo, degli avvenimenti, in pure onde sonore o schizzi d’inchiostro. Emerge dal brano il problema dell’uomo, della sua comunicazione, del suo rapportarsi con l’altro. Qualcosa di quotidiano. Così umano che, già, Montale nella sua raccolta Ossi di Seppia scriveva:”Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari…”. La parola è un mezzo materiale, che fa fatica a squadrare, a focalizzare l’intera esperienza che l’uomo fa di fronte alle cose. Il cantante ferrarese se ne accorge presto:”Non ti bastano le parole / Eppure non puoi starne senza”. Tanto è vero che una parola non restituirà mai l’avvenimento, lo stato d’animo originale, tanto l’uomo ha bisogno di esprimersi. Di raccontare. Di chiarire la propria esperienza a sé e di fronte agli altri. La seconda canzone, presa in analisi, rileva lo stesso problema: “Mi servirebbe sapere”. Anche Antonio Maggio desidera una parola. Aspetta una risposta alla sua ricerca di sapere “Se l’altra notte […] eri sincera”, “La strategia per aggirare / tutte quante le barriere / o quale sia la strada giusta…”. Il brano evidenzia la difficoltà di chi scrive a schierarsi con il bene o con il male: “Non sono stato mai, capace di decidere / cosa meglio sia, e cosa definire male”. Il problema che ne nasce è affidato, come suggerisce lo stesso titolo della canzone, a un destinatario che non esiste. E già il condizionale «piacerebbe» pone le condizioni del fallimento di questa ricerca. È una possibilità che non diventa bisogno, tanto che la clausola del titolo si ritrova prima tra parentesi, poi cambia la persona:”ti piacerebbe sapere”. E quando ritorna la prima persona cambia il verbo:”Mi piacerebbe sapere”. Alla fine l’autore si arrende:”In fondo mi è anche piaciuto”, simile al “Sarà vero poi vive chi si accontenta” della prima canzone.
Ma nei due pezzi c’è una grande differenza. L’esito della problematica sviluppata nel primo testo richiama il bisogno di affrontare la parola, che continuamente si ripresenta nell’orizzonte umano. Mentre il secondo, di fronte alla contesa dell’uomo tra il bene e il male, si abbandona a una soluzione di comodità. Non prende sul serio quel dramma e si accontenta di “Soffrire e farmi abbandonare qui…”. Due posizioni differenti per affrontare i propri problemi. Assolutamente più affascinante la posizione della prima canzone, che lascia lo spazio di un lavoro personale, quello di ogni giorno davanti ai propri amici, figli, marito e moglie.
(Davide Ori)