Sanremo 2013, l’analisi musicale della seconda serata – Si comincia con un bel tributo a Domenico Modugno, che al tempo stesso funge da spottone alla fiction Rai a lui dedicata, con Beppe Fiorello. Bel momento, la voce di Fiorello non sempre impeccabile, ma tutto sommato un omaggio gradito. 

Poi si apre la gara canora con i Modà e la loro Se si potesse non morire. Innanzitutto il ‘sa, sa’ per provare il microfono prima dell’inizio della canzone lascia trapelare la grande esperienza live. Questo è un gruppo che suona, con un sacco di fan, che riesce ancora a riempire i concerti. Diciamo che la canzone funziona molto bene, appoggiandosi sul classico schema “strofa narrativa-ritornello che esplode”, la tensione drammatica della voce di Kekko è palpabile e dà al testo una consistenza che non avrebbe avuto solo leggendolo. Questo è il motivo per cui si scrivono canzoni e non poesie. La prima canzone oscura un po’ la seconda, Come l’acqua dentro il mare, che pure è un buon pezzo, ma presenta un po’ di cali di tensione ed è un po’ ripetitivo: in fondo la melodia è una sola, spostata su due ottave. Il verdetto è abbastanza scontato: passa la prima canzone e apre ai Modà la strada per una possibile e plausibile vittoria finale. 



Simone Cristicchi apre con Mi manchi, canzone vagamente d’amore, basata su un elenco di similitudini. Musicalmente ricorda vagamente la musica tradizionale greca, il rebetiko, già sondato a fondo in un recente disco di Vinicio Capossela. L’impressione è confermata dall’apparire sul palco di un bouzouki, che proprio dalla Grecia proviene.

Non credo di sbagliare a intendere come ritornello la parte iniziale: lo conferma il fatto che la seconda sezione, dove la melodia si apre e cerca di spiccare il volo, è in minore, e quindi assomiglia più ad un bridge. Una canzone che tutto sommato funziona. L’impressione dopo tre pezzi è che stasera il livello sia più alto di quello della prima serata. 

Siparietto di simpatia con Cristicchi che si auto-annuncia il pezzo prima della seconda canzone, 

La prima volta che sono morto, un light swing che descrive la sua personale visione della vita dopo la morte. Con una stoccata finale vagamente politica e sociale (non poteva mancare) con il nonno partigiano che chiede al nipote morto se il mondo è cambiato. Il nipote gli risponde ‘lasciamo perdere’. Un pezzo che in ogni caso funziona, il cantato è una specie di recitativo senza grossi picchi, brano molto teatrale, specie di macchietta teatrale vivificata dal tema che funziona. Fra le due, passa la seconda. 

La parentesi Carla Bruni anticipa l’ingresso di Malika Ayane, che apre con Niente. Entrambi i suoi pezzi sono di Giuliano Sangiorgi, il leader dei Negramaro. Un arpeggio di chitarra classica anticipa parte della melodia (un grazie e un saluto a Giorgio Cocilovo), la canzone è molto delicata e la voce di Malika la interpreta bene con il suo suono caratteristico, che come capita con tanti, o ami o odi alla morte. Il brano si chiude come si era aperto, delicato, un po’ indulgente al patetico, a mio avviso un aereo bello e multi accessoriato, ma che non riesce a staccarsi dalla pista di decollo. Via alla seconda canzone, E se poi. Pezzo più leggero, direi soft-pop di alto livello, che l’interpretazione vocale impeccabile e il bell’arrangiamento nobilitano forse oltre il suo valore effettivo. In ogni caso questo è il brano che viene votato di più e passa il turno. 

Arrivano gli Almamegretta e aprono con Mamma non lo sa. L’ambito musicale è quello più consono al gruppo, un ragamuffin passeggiato e un po’ trascinato che invita, nel monito finale a riprendersi l’umanità, trascurata per il progresso e l’omologazione. Ci troviamo di fronte ad un ragazzo della via Gluck, spostato al sud, ideologizzato e attualizzato, ma neanche troppo. Perplessità. Onda che vai è invece un brano scritto dai fratelli Zampaglione, che forse qualcuno ricorderà (almeno, Federico) nell’esperienza dei Tiromancino. In apertura siamo in area Police-Sting e aggregati (il giro di basso è citato nota per nota da Bed’s too big without you dei Police), anche se il clima cambia un po’ nel ritornello, tornando in territori più comuni, pur arricchiti da un arrangiamento prezioso. Il brano funziona, anche se il gruppo sembra dover stare in un vestito troppo stretto. Anche se il fatto che siano su quel palco è già notevole. Per la cronaca, passa Mamma non lo sa. 

E siamo a Max Gazzè. I tuoi maledettissimi impegni è la sua prima canzone. Con cappotto nero lungo e inforcando il basso, raccoglie gli applausi e attacca una canzone tipica, con versi lunghi e pieni dienjambement fra una riga e l’altra. Non si distingue precisamente una strofa e un ritornello, anche se dalla melodia spezzata dell’inizio, ad un certo punto si passa ad un recto tono ritmico accompagnato dal cambio di armonie sottostanti. Tutto sommato non mi convince. Non so se la riascolterei più di due volte. E cominciaSotto casa. Un attacco ad armi spianate alla religione in genere, in salsa Bregovic-marcetta-zum-pa-zum-pa, senza mezzi termini, con versi serrati e veloci. Passa questa, testo a parte, sicuramente più brillante dell’altra. 

Ed è il turno di Annalisa, prodotto di Amici. Con Scintille restiamo in un ambito vagamente circense, in un territorio che ricorda in qualche modo anche Paolo Conte, il ritornello incede invece un po’ al rock steady. Canzone frizzante, adeguata al personaggio e ben arrangiata da Fio Zanotti. La vocalità ha molto carattere e nessun timore. Ascoltandola penso già che sarà questa la canzone che passerà il turno. Al secondo passaggio, il ritornello rock-steady già prende. Niente male davvero. Con il secondo pezzo, Non so ballare, siamo tornati in un territorio più consono alla vincitrice di Amici, e al tempo stesso più stereotipato. Mi tornano in mente i luoghi e i laghi di tre anni fa. Come pensavo, passa la prima. 

E infine gli attesissimi Elio e le Storie Tese. Muniti di teste giganti parruccate e tuniche da chierichetti, propongono  come primo pezzo Dannati forever. L’ambientazione è beatlesiana alla massima potenza: l’incedere ritmico di Getting Better, i fiati di Got to get you into my life, i flautini di Yellow Submarine (ma la versione orchestrale) e un pizzico di Penny Lane. Più un centone di altre citazioni, che terminano con il-temino-messicano-che-tutti-sanno-ma-di-cui-nessuno-conosce-il-titolo (ma io lo conosco, grazie a Carlo Pastori: è El Jarabe Tapatio) e due accordi finali alla Queen. Tutto questo popò di musica per dire cosa? Che l’inferno cristiano è una bufala e che se le cose stessero così, tutti sarebbero dannati.  

La canzone mononota è tutto un altro paio di maniche. Appena finito il pezzo mio figlio dice: devo risentirla subito. È un tormentone istantaneo; tutti colgono istantaneamente la portata di una canzone così – ironica, originale, scritta con maestria – anche senza cogliere i multipli riferimenti a generi, autori, clichè, aspetti musicali, tutti comunque mirabilmente ripresi nell’arrangiamento. La stessa idea di un Verse teatrale all’inizio (per intenderci alla Volare: penso che un giorno così non ritorni mai più…) che spieghi con una melodia ardita la ricerca, appunto di una melodia difficile e ‘composita’ – solo questa idea è già geniale. La canzone poi si sviluppa su una nota sola di canto e una complessità di arrangiamenti continuamente trasformata, che realmente ricorda Frank Zappa, stracitato quando si parla degli Elii. Tenete presente che il video sul sito della Rai ha già 35.000 like. Naturalmente passa La canzone mononota. E meno male. 

Finiscono i big, si dà spazio all’ospite Asaf Avidan e ad un’inutile sketch di Fabio Fazio e Neri Marcorè nei panni di padre e figlio Angela. Ad un’ora improbabile, arrivano i giovani, che vediamo brevemente. 

Renzo Rubino porta al festival Il postino (amami uomo) (ecco un altro titolo con le parentesi), un ballabile terzinato degli anni 60, si sente che ha suonato nei night. Il tema è la coppia gay, e si può stare sicuri che colpirà nel segno. 

Segue Il Cile con Le parole non servono più. Lorenzo Cilembrini è nato ad Arezzo ed ha 31 anni ed è già conosciuto in ambito indie e sul web. Vena cantautorale, l’ennesima storia d’amore sfigata e pertanto finita, un blues lento un po’ troppo sdolcinato, sentimentalizzato da Vessicchio per impiegare un po’ gli archi dell’orchestra.

Irene Ghiotto, vestitino fiorato e anfibi, presenta Baciami?, la vocalità è abbastanza convincente, il pezzo dà l’impressione di uno spirito punk un po’ incastrato in un brano addolcito per Sanremo. Fatte le debite proporzioni, ricorda un po’ Jo Squillo seconda maniera. 

E infine arrivano i Blastema con Dietro l’intima ragione. A parte il fatto che non capisco di cosa parli la canzone (sarà l’ora?) il brano è ben allestito, ricco di pieni e vuoti fra i Coldplay e i Radiohead, rock orchestrato di spessore. Cantato abbastanza drammatico anche se non precisissimo. 

Alla fine passano solo due giovani alla fase finale, e sono proprio i Blastema e Renzo Rubino. Arrivederci al Cile e a Irene. Sentiremo poi gli altri quattro.