Sanremo 2013, analisi musicale della terza serata – Nel corso della serata di ieri sera abbiamo potuto riascoltare i brani dei Big che sono stati scelti tra le due proposte grazie al telefoto, così come conoscere gli altri due finalisti della categoria Big. Ecco canzone per canzone l’analisi dei singoli brani dal punto di vista strettamente musicale.
Simona Molinari (con Peter Cincotti): La felicità
Due ottimi esecutori, la Molinari è uno di quei talenti in cerca di una espressione definita da qualche anno ma che ad oggi non ha afferrato quell’intersezione magica tra repertorio e modelli di riferimento. In equilibrio ancora precario tra Vanoni e jazz singer di alto profilo, tra Casale, Caputo e cantante da big band d’epoca. Canzone divertente con un sentore scherzoso da swing-mambo italiano che ha già fatto capolino nel suo ultimo album, in ultimo lascia un senso di divertimento un po’labile.
Marco Mengoni: L’essenziale
Il nuovo funambolo italiano del twang tra eccessi e ricerca di un vero calore di timbro. Anche qui manca il repertorio con questa canzone che si attesta sui registri sicuri e seriali del pop melodico italiano, con un furbissimo senso dei tempi di presa sul pubblico in cerca di facili emozioni.
Elio e le Storie Tese: La canzone mononota
Esemplari nel rendere un puro scherzo a tono unificato con un una verve che trascina dentro arrangiamenti furiosi e sbrigliati in quella che diventa un’autentica festa di suoni e combinazioni. In un unico corpus musicale si rivela un ‘indole ora nobile ora canzonatoria, ora ricca ora di un minimalismo che rompe il guscio del registro volutamente limitato, tra citazionismo musicale e culturale (la menzione di Bob Dylan all’interno del testo). Forse troppo navigati in questo tipo di cose, confondono i piani mostrandosi al contempo geniali e furbeschi.
Malika Ayane: E se poi
A differenza della Molinari ha trovato da tempo e conferma tuttora la sua personalissima fisicità che assomma una voce solida, dotata di un birignao suadente e un autore di riferimento che sembra fatto su misura per le sue specificità. Qui lambisce Mina e Vanoni senza ricordarle appieno ma andando a collocarsi in quelle strade di mezzo che sfuggono a classificazioni e identificazioni.
Marta sui Tubi: Vorrei
Gruppo tenuto in grande considerazione sul fronte indie che prevede la solita voce in declinazione psycho per quanto giocata con impeto e, va riconosciuto, un rivestimento sonoro energico e ben giocato. Quello che forse manca – almeno in questa canzone – è un vero e forte quid tematico della composizione musicale.
Chiara: Il futuro che sarà
Canzone dal piglio raffinato con andamento di tango nella strofa nello stile ormai collaudato e astuto di Bianconi tra pop ammiccante e cantautorato, e poi lei. Finalmente una voce che non spinge come le storiche invasate dell’ugola made in Amici, e tuttavia neppure conquista almeno per il momento. Pulita, abbastanza precisa (ma stasera non sempre intonatissima), melodica senza licenza di ferire ma piuttosto di rassicurare. Risultato? Eccovi servito l’ultimo esperimento para-scientifico della canzone, l’Adele italiana.
Max Gazzè: Sotto casa
Ecco il bravo musicista, strumentista, arrangiatore e cantautore eterno incompiuto, con quest’allegra sfuriata che amoreggia con Bregovic e Battiato alternandoli con una riuscita linea sciabolante di sintetizzatore. Ironia pungente per quanto risaputa nel testo che si nutre di stereotipi anti-religiosi vecchi come la storia apparecchiati per l’ennesima volta sotto differenti sembianze per quanto con una certa leggerezza. In ogni caso un bel brano.
Annalisa: Scintille
Una delle liete sorprese del festival, l’ultimo grido dell’inaspettato che emerge da una delle isole del canto muscolare gridato, alias Amici. Folk, bandismo e saghe da chansonnier in un recipiente che mette insieme Ruggeri e Conte, aromi sudamericani, pop e ricodificazioni mitteleuropee. E lei, a parte qualche peccato di sgommamento che tradisce la scuola di provenienza, esplode con gioia e inattese vibrazioni. Bravissima.
Maria Nazionale: E’ colpa mia
Copione consolidato di certo mediterraneo che mette in circolo forte impatto sentimentale, lirismo, feuiletton e veracità , prorompenza florida e twang nasale che richiama i cantori delle periferie piene di cuore, sole e mare. Brava e abile maschera del neapolitan meroliano.
Simone Cristicchi: La prima volta che sono morto
Tra stornello, schegge di swing da borgata e una certa confidenzialità dolceamara che si pone tra Stefano Rosso e Luciano Rossi, ecco la peggiore esibizione vocale del festival. Il ricciolone romano non prende quasi mai le note non solo nelle insidiose rapide delle frasi staccate, ma neppure nelle fasi scandite.
Modà: Se si potesse non morire
Ballatina sentimentale che si erge su un registro persistente e persecutorio come i più incalliti tour de force del sentimental-pop, e va da sé, con le sguaiate evoluzioni gementi di Silvestre.
Daniele Silvestri: A bocca chiusa
Cerca di affrancarsi dallo stile giocondo pop-funky-rap della prima maniera imbarcandosi in un filone un po’popolare che sta tra Barbarossa e i cantori di borgata, con una canzone che mescola ironia di quartiere e riflessione accorata. Scrittore più consumato che ispirato, abile a dare un’idea profonda di sé ma che rimane sempre sulla soglia delle cose drammatiche come alla ricerca di renderle a portata di sensibilità e di sentimento diffuso. Mai un passo oltre.
Almamegretta: Mamma non lo sa
Ragamuffin che mette in tavola un intingolo che mescola senza pudore mediterraneo e americhe centrali, con una scrittura scorrevole e di gran presa, pronta per le celebrazioni proletarie come per chi cerca momenti di spensieratezza dagli affanni settimanali. Divertente.
Raphael Gualazzi: Sai (Ci basta un sogno)
Canzone che snocciola il ricorrente pianismo raffinato che fa tanto autore confidenziale di grandi pretese. Gualazzi è stato espresso due anni fa come l’ultima frontiera dello swing chansonnier e pompato a dismisura in quell’area. In cerca di intensità interpretative, finisce per rivelare limiti e sguaiataggini che oltrepassano il segno in una canzone che spinge sulla leva del sentimento giocato con violenza. Risultato dignitoso e innocuo.
Andrea Nardinocchi: Una storia impossibile
Della canzone si è già scritto. Filastrocca in salsa tecnologica che vuole conquistare con un motivo conduttore smanettante e giovanilista, come tanti se ne sono sentiti. A volte il timbro ricorda un Fabi colpito da dolori al bassoventre, come per molti l’intonazione latita lungo l’intera durata del brano.
Antonio Maggio: Mi servirebbe sapere
Canzone che conquista per la sua radiofonicità ostentata , la vena da tormentone e i falsettoni garruli. Persecutoria come certe cose del Silvestri scanzonato, non lascia scampo a chi cerca di sottrarsi alla logica della musica come rito del divertimento permanente. Se non altro le sue note le prende tutte.
Paolo Simoni: Le parole
Tenta di riportare alla luce schegge perdute di quell’intimismo anni ’80 che ha trovato i suoi eroi nei Dalla e nei Carboni senza riuscirci, anzi lasciando un forte senso di travaso piuttosto servile. Anche il canto ricalca quei modelli senza lasciare la stessa impressione di precisione e forza espressiva.
Ilaria Porceddu: In equlibrio
Signori, qui si canta come si deve. Voce melodiosa, ora soffusa ore modulata ora esplosiva nel coro in sardo, non sempre perfetta nelle respirazioni con qualche leggero calo in corsa ma dotata di un registro cromatico potenzialmente sterminato. Atmosfere che agganciano il cantautorato lirico e la malinconica festosità felliniana.