Quarta serata di Sanremo (ma ce n’era poi bisogno? Ai posteri l’ardua sentenza) dedicata a cavalcare un po’ i ricordi, attraverso le esecuzioni di brani celeberrimi presentati al Festivàl nel passato. Sì, Festivàl con l’accento sulla àl, perchè questa sera troverà spazio anche una (sacrosanta) celebrazione di Mike Bongiorno, con relativa posa di un statua nelle piazza antistante il Teatro Ariston. A fine serata (ma chissà poi perché? Non era meglio aprire la serata con loro? Ah, ‘ste scelte di marketing…) i quattro giovani superstiti alle selezioni si sfideranno per il titolo.



Si comincia con Malika Ayane e Cosa hai messo nel caffè: il pezzo è adeguato a lei e lei lo canta come sa, per la verità senza slanci eccessivi e puntando un po’ troppo sul balletto, alla stessa maniera dei suoi ultimi video. Daniele Silvestri sale sul palco un po’ imbastito, sembra svogliato, e nonostante il panegirico iniziale per Dalla, interpreta una versione di Piazza Grande tiepida e poco convincente. Annalisa ed Emma affrontano Per Elisa di Alice. A parte il fatto che per raggiungere il carisma di Alice devono mangiare ancora chili di pastasciutta (dietetica), ma oltre a questo fra le due c’è un divario immenso, non tanto in valore assoluto, quanto di stile. Troppo convinta e un po’ sguaiata Emma, sbarazzina e in fondo più convincente, anche vocalmente, Annalisa. La canzone è bella e tutto sommato si lascia ascoltare. Si parlava di carisma: ecco apparire Antonella Ruggiero. Senza salire in cattedra, offre la solita prestazione impeccabile, senza pestare i piedi a nessuno, anzi esaltando le individualità degli altri presenti sul palco, in particolare il cantante di Marta sui tubi, che pur in un contesto forse a lui non molto familiare, non sfigura affatto. Il pezzo è Nessuno, già reso a suo tempo in una doppia versione Wilma De Angelis-Mina, lento-veloce. Si ripercorre l’antica idea, sebbene la versione slow sia di una lentezza esasperante, mentre risulta efficace il bel cambio di rotta up-tempo, per poi tornare ad un finale slow. Raphael Gualazzi a mio avviso per l’ennesima volta fa il passo più lungo della gamba. La versione jazz-waltz di Luce di Elisa, un pezzo incredibile non convince per niente, tipico esempio di cover che snatura il pezzo senza trasformarlo in qualcosa di nuovo.



Andando avanti, i Modà affrontano una cover un po’ gonfia e tentativamente monumentale di Io che non vivo. La versione resta un po’ lì, suonando un po’ retorica, ma a me la vocalità di Kekko, nonostante molti pareri contrastanti, continua a piacere. Simone Cristicchi si misura con Canzone per te, pezzo del grande e troppo presto dimenticato Sergio Endrigo. Versione rispettosa ed educata, ma un po’ inconsistente, specialmente nei passaggi un po’ difficili vocalmente, dove Cristicchi paga pegno. E siamo a Simona Molinari, Peter Cincotti con l’aggiunta del grande vecchio del jazz italiano, Franco Cerri. Il pezzo è la scandalosa – una volta – Tua di Jula De Palma. Tre enormi valori in campo, ma emerge con fulgore solo l’87enne Franco Cerri, un tocco e un gusto inimitabile. Cincotti suona bene e canta malino e Silvia Molinari non sembra al suo posto, un po’ troppo atteggiata e con un timbro leggermente fastidioso che oscura le sue immense doti vocali.



Maria Nazionale esegue Perdere l’amore, canzone che si rivela non molto adatta a lei, nonostante la consanguineità territoriale con Ranieri. Ma la pasta vocale ed il carattere di questi due cantanti sono diverse e si sente. Un paio di pericolosi scivoloni (vocali) mostrano una voce forse un po’ stanca.

Marco Mengoni, emozionatissimo come al solito (viene anche da chiedersi se un po’ non ci faccia) presenta Ciao amore, il pezzo di Tenco escluso dal festival nella serata del tragico gesto. Mengoni è bravo, non c’è dubbio, e interpreta il pezzo alla sua maniera. L’arrangiamento convince abbastanza, una maggiore sobrietà vocale, specialmente nel finale, lo avrebbe salvato da un paio di svarioni che rischiavano di compromettere tutto. Un po’ più di umiltà non guasterebbe, in genere.

Elio e le storie tese con Rocco Siffredi eseguono Un bacio piccolissimo. Una pantomima recitata da Rocco (dopo una battuta di cattivo gusto) fa da introduzione all’apparizione degli Elii trasformati in bambini che imbracciano strumenti small size, ma suonandoli davvero. Entertainement puro, fatto da musicisti veri, bravi, che si divertono a prendere in giro il tema, la canzone e lo show business in genere, facendo a loro volta business sul divertimento. Ma al tempo stesso, ripeto, con cognizione di causa, cioè sapendo la musica e sapendo giocare con essa da maestri. La citazione finale di Teen Town, composta da Jaco Pastorius per i Weather Report, è un colpo da maestri.

Dopo il botto si va velocemente (si fa per dire) verso la conclusione, ma non dimentichiamolo, manca ancora la gara dei giovani. Max Gazzè interpreta Ma che freddo fa: abbastanza imbarazzante e stonato, il pezzo è sbagliato per lui, e dà l’impressione di trovarsi a suo agio solo sulle sue canzoni. La bravissima Chiara Galiazzo canta Almeno tu nell’universo, più simile alla versione di Elisa che a quella inarrivabile di Mia Martini ne risulta una versione senza trasporto drammatico, asettica, sterilizzata. Infine gli Almamegretta, orfani del cantante Raiz, da poco convertito all’ebraismo e quindi impedito a cantare per motivi religiosi, interpretano un Ragazzo della via Gluck da archiviare in fretta, in salsa ragamuffin-passo-strascicato-da-primo-maggio. Una parentesi dedicata al bravo Stefano Bollani porta alla gara dei giovani, che inizia – ahimè – alle 23,50. I brani sono stati già analizzati negli articoli riguardanti le serate precedenti a questa. Si esibiscono nell’ordine Antonio Maggio con il suo tormentone, Ilaria Porceddu e una canzone ben scritta e vocalmente impegnativa, i Blastema con i loro pieni-vuoti rock e Renzo Rubino con la sua romanza gay. Alla fine Il Cile (escluso dalla finale) avrà il premio per il miglior testo, Renzo Rubino il premio della critica e Antonio Maggio la vittoria finale. Via alle discussioni.