In poco meno di un anno hanno distribuito oltre un milione di pasti a musicisti e operatori dello spettacolo travolti dagli effetti del lockdown, tra le vittime prime e principali della più inattesa tempesta economica e sociale del nuovo millennio. Negli Stati Uniti la Relief kitchen for touring professional è solo una delle, pur drammatiche, possibilità di sostegno agli addetti al comparto; da Los Angeles a Chicago, da Nashville a New York sono sempre di più i ristoratori stellati che hanno aderito all’iniziativa. Tim “Gooch” Lougee è uno dei più importanti tour promoter nel Paese (fa girare Neil Young, Kid Rock, i Kiss, i Depeche Mode, per dire), racconta di come migliaia di musicisti abbiano dovuto vendere i propri strumenti e trovare un nuovo lavoro: “alcuni di loro”, racconta, “hanno fatto questo per venti o trent’anni, è la loro professione. Però non hanno un’assicurazione medica né piani pensionistici. Producono anche cento mila dollari l’anno ma non hanno alcun accesso alle strutture con cui l’America si prende cura degli impiegati in tempi di crisi”. Per Lougee, la garanzia di un pasto non è solo una risposta ad un diritto umano primario, ma anche un modo per creare uno scambio tra artisti, musicisti, tecnici sul momento di crisi, sia per condividere problemi sia per tentare di individuare nuove strategie di resistenza a qualcosa che, ad oggi, non ha né una data di fine né tanto meno nuvole rosa all’orizzonte.
A fare il punto su una (considerevole) pluralità di enti benefici che da un anno stanno drenando denaro a sostegno dei musicisti è il Rolling Stones Us, che racconta delle principali organizzazioni dedicate espressamente al sostegno economico (ma non solo) per i professionisti del settore e fa una certa impressione leggere quello che accade oltreoceano (non evidentemente risolutivo, ma certamente propositivo), se messo a confronto con il deserto vero e proprio nel quale stanno marciando i musicisti in tanta parte dell’Europa e in particolare in Italia.
La Musicians Foundation da 107 anni è al fianco dei musicisti in difficoltà economica, l’hanno patrocinata Caruso, Rubinstein, Steinway, Rachmaninov e oggi Yo-Yo Ma, solo per citare qualche nome. Poi, a parte la più storica ed autorevole delle fondazioni no-profit al fianco di chi fa musica, ci sono la Louis Armstrong a New Orleans, la Blues Fund a Chicago, la IBMA per il bluegrass a Nashville e così via.
E noi? Può essere un esercizio non di stile interrogarsi sui motivi che portano ad evidenziare il gap da togliere il fiato tra “noi” e “loro”. Ogni insider avrà diverse spiegazioni, il risultato sarà comunque un elenco zoppo che pure merita un tentativo. Certo, si potrebbe partire, con argomento a contrario, da alcune evidenze di cronaca: Obama fa un podcast con Springsteen, dopo aver avuto ai tempi della Casa Bianca gli Stones e Van Morrison; per tenere tutto nell’ossessione della par condicio, poi, andrà pur detto che Loretta Lynn, Gene Simmons o Kid Rock (non Umberto Tozzi, certo, che ha minacciato azioni per l’uso improprio di Gloria) hanno suonato le glorie e gli altari di Donald Trump.
Questo spiega quanto meno che la musica pop (nelle sue multiformi declinazioni, blues, country, jazz, rock) è parte necessaria e non sostituibile della cultura e dell’etica di quella nazione, mentre da noi, al più, si può ricordare il timido tentativo di fare della Canzone popolare di Fossati l’inno dell’Ulivo di Prodi. Non suoni ironico o irrituale il raffronto, perché in esso c’è una parte di innegabile realtà niente affatto giocosa: politica e musica, sembrerebbe, non hanno mai saputo trovare una osmosi virtuosa di alternatività nel racconto delle società; vivendosi piuttosto con reciproca diffidenza, quando non insofferenza, come se l’ispirazione fosse di per sé una monade incompatibile con l’idea di cura delle comunità. Da noi, insomma, la musica ha schifato la politica non meno di quanto questa non abbia fatto con quella.
Tale infausto marchio di fabbrica, risalente di diversi decenni, è stato causa di pregiudizio verso investimenti strutturati e seri che facessero della musica un potenziale motore economico e produttivo, tollerandosi al più qualche disattenta mancia a improvvisati festival di provincia, girandosi dall’altra parte verso la diffusione di evasioni fiscali (spesso necessitate da un carente apparato normativo). L’idea sottostante pare, insomma, esser stata: se non è un settore di investimento non si formeranno rischi di blocco della produzione, quindi associazioni di categoria con minacce di azioni collettive. Nessuna parte sociale, nessuno sciopero temibile, nessun danno: la musica è, per lo Stato, solo un gradevole passatempo.
Atteggiamento che ha avuto presa nella scarsissima propensione a formare rappresentanze di categoria dei musicisti, incapaci di accreditarsi come interlocutori credibili ai tavoli di governo, portatori di istanze economicamente capaci di causare un danno all’apparato. Come se ciò non bastasse, a nessuno di loro è venuto in mente di svolgere il ruolo di formica, capace di accumulare e risparmiare per quando sarebbe venuto l’inverno, creando – così come è stato fatto negli States – un sistema di fondazioni, capaci di lenire un danno comunque incalcolabile. Si sarebbe trattato di rinunciare ad una quota di incassi e di organizzare eventi a sostegno della creazione dei fondi. Non pervenuti.
Ed ecco quindi il dilagare di un vero e proprio disastro sociale come quello iniziato da un anno esatto con la pandemia. Migliaia di operatori e professionisti divenuti invisibili, costretti a vendersi oltre agli strumenti anche gli elettrodomestici in casa pur di sopravvivere, un esercito in diaspora senza alcun contatto istituzionale al quale rivolgersi. E lo Stato, di par suo, ha risposto con una disattenzione al settore senza precedenti, risoltosi in uno strabismo diabolico per cui aperture e chiusure non sempre son sembrate, diciamo così, ben calibrate.
Difficile adesso, nel pieno della tormenta, determinare cosa succederà, salvo pubblicizzare “ristori”, difficilmente raggiungibili da chi ha vissuto nella semioscurità. Ma quando arriverà il momento di capire cosa fare di questa onda anomala e disgregata, occorrerà quanto meno ridisegnare con saggezza un sistema più virtuoso che, partendo dal riconoscimento pubblico del ruolo svolto dal comparto musicale, arrivi ad agevolare con un sistema fiscale sostenibile e investimenti adeguati la ripartenza dell’attività, rifondandone la grammatica sociale e il ruolo.
Forse talvolta prigionieri di personalismi, certo incapaci di aggregarsi per fare sistema, ma i musicisti italiani restano tra i migliori al mondo, una élite culturale invidiata e di qualità oggettivamente fuori scala. Ignorarne il valore e il contributo in termini di crescita economica sarebbe una follia.