Ieri sera, durante l’orario di punta americano, “X” (già Twitter) ha ospitato un dialogo tra il candidato repubblicano Trump e Elon Musk, fondatore di Tesla e proprietario di “X”. Gli argomenti di riflessione sono stati tanti dall’immigrazione, ai conflitti internazionali passando all’economia. A tre mesi dalle elezioni Trump sembra però volersi concentrare sulle condizioni economiche e in particolare sull’inflazione. L’incremento dei prezzi di alcuni beni e in particolare degli alimentari hanno accumulato rialzi ampiamente in doppia cifra negli ultimi anni erodendo il potere d’acquisto di ampie fasce della popolazione; gli aumenti salariali spesso non hanno tenuto il passo dei prezzi. In questa situazione si ritrovano moltissimi americani costretti a tagliare sugli acquisti o a scegliere beni di minore qualità. L’evidenza di questo fenomeno emerge non solo nel rallentamento dei consumi in alcuni comparti dell’economia come, per esempio, il settore auto ma anche nei numeri delle trimestrali pubblicate qualche settimana fa e in quello che molti amministratori delegati di grandi catene commerciali hanno raccontato agli analisti: vuoti improvvisi nei consumi, concentrazione degli acquisti sui beni di prima necessità a discapito di quelli discrezionali nei supermercati, fenomeni di “trade down” con cui le famiglie scendono nella qualità o nel brand per risparmiare sul carrello della spesa.
Sotto la superficie della “Bidenomics”, fatta di crescita del Pil e rialzi dei listini azionari, si nasconde più di un’America; c’è una parte della società che è più povera del 2019. Trump è consapevole di trovare un uditorio disposto ad ascoltare e che si sente descritto e compreso tutte le volte che si tocca l’argomento dei prezzi. L’urgenza dei conflitti in Medio Oriente o della guerra in Ucraina, che in Europa appaiono invece prioritari, vengono molto dopo in una campagna elettorale dominata dai temi domestici e, tra questi, da quello meno ideologico di tutti. La colpa dell’inflazione viene scaricata sull’amministrazione Biden e sulle sue decisioni in tema di spesa pubblica. Gli Stati Uniti potrebbero entrare in una prossima recessione con il deficit ai massimi storici, pandemia e guerre mondiali escluse. La contraddizione tra un’economia in crescita e un deficit fuori scala non è un argomento “repubblicano”. È da almeno un anno che i principali attori del sistema finanziario americano, in molti casi di area “democratica”, descrivono la traiettoria fiscale di Washington come “insostenibile” includendola tra le forze inflattive. Più recentemente anche il presidente della Fed ha espresso preoccupazione per il deficit americano.
Per “far scendere i prezzi” Trump promette meno spesa pubblica e più efficienza. Non è chiaro però cosa possa rimanere di questi propositi se l’America dovesse veramente entrare in recessione. Fare austerity con un’economia in contrazione esaspera il rallentamento. Lo stesso si può dire dei mercati finanziari che riflettono anche i consumi. I prezzi dell’energia bassi possono essere un importante elemento a favore perché rimettono nelle tasche dei consumatori potere d’acquisto e perché rappresentano una forza contraria all’inflazione. Spingere sugli idrocarburi non costa niente ed è un contributo sicuro. Il dialogo di ieri è stato una conferma dei propositi di Trump sulla “transizione energetica” mentre l’Europa viene citata come esempio negativo.
Il minimo che si possa dire dopo il dialogo di ieri è che il candidato repubblicano e i suoi consiglieri siano convinti che inflazione e prezzi possano essere un argomento facile con cui raggiungere un’ampia fascia di elettorato. Gli ultimi dati economici e le ultime trimestrali lo confermano. Più passa il tempo più l’inflazione scala posizioni in una campagna elettorale che si appresta alla conclusione.
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