Il monito lanciato la scorsa settimana da Mario Draghi in videocollegamento per preparare il Globale Health Summit («non sappiamo quando finirà il Covid, dobbiamo prepararci ad evitare altre pandemie») non riguardava un grido di allarme di un politico preoccupato, ma una lucida analisi a seguito di un lungo confronto con gli esperti anche internazionali: lo si evince oggi dall’intervista de “La Stampa” a Seth Berkley, epidemiologo Usa presidente della Global alliance for vaccines and immunization (Gavi). L’esperto prende spunto dall’allarme – anche mediatico – scoppiato negli ultimi giorni sulla variante indiana e afferma «L’India è l’esempio di cosa può succedere se si lascia correre il virus nei Paesi in via di sviluppo».



Serve investire più in vaccini, in infrastrutture e prepararsi purtroppo a possibili nuove pandemie: secondo Berkley, il problema delle varianti più contagiose mette a nudo le difficoltà delle risposte globali alla pandemia da Covid-19, «nuove mutazioni […] più facili da trasmettere e maggiormente resistenti ad alcuni vaccini e terapie. Il loro insorgere sottolinea l’importanza di continui investimenti in ricerca e nello sviluppo di vaccini sempre più efficaci». Come Gavi, l’impegno è nell’assicurare accesso equo ai vaccini in ogni parte del mondo con il programma Covax: «L’obiettivo è garantire a ogni Paese di proteggere i sanitari, i lavoratori in prima fila e i soggetti fragili. Questo richiederà almeno 1.3 miliardi di dosi per 92 Paesi bisognosi, per cui abbiamo raccolto 6.7 miliardi di dollari, ma servirà molto di più».



I RISCHI PER IL FUTURO

L’India ma non solo, i Paesi più in difficoltà ad oggi sono tutti quelli a basso reddito e con pochi accessi ai vaccini: «I nostri accordi riguardano 720 milioni di dosi di AstraZeneca, 500 di Johnson&Johnson, 40 di Pfizer, 200 di Sanofi e 1 miliardo di Novavax». L’epidemiologo americano giudica importante l’apporto dell’Italia al progetto Covax ma spinge perché si possa fare molto di più sul fronte brevetti: «La cessione della proprietà intellettuale non porta più dosi, perché la produzione di vaccini necessita di processi molto complessi. La via migliore per una fornitura più ampia ed equa è il trasferimento di tecnologia, con cui le case farmaceutiche – i cui farmaci sono stati spesso sviluppati grazie a fondi pubblici – investono in nuove capacità di produzione e condividono il loro saper fare». Chiosa finale all’intervista con uno sguardo più sul medio-lungo termine e non sono scenari benauguranti: secondo Berkley «Avremo altre pandemie e per questo serve investire per tempo in ricerca e impianti di produzione. Ora dobbiamo limitare contagi e varianti con i vaccini, senza dimenticare mascherine, distanze, test e terapie. Potremmo farcela nel 2022, ma c’è ancora tanto lavoro da fare».

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