La mutilazione genitale femminile continua ad essere una barbara pratica diffusa in tutto il mondo. In otto anni, il numero di donne di tutte le età che hanno subito una forma o l’altra di queste pratiche è aumentato da 200 milioni a 230 milioni, con un incremento del 15%, secondo un rapporto dell’Unicef ​​pubblicato il 7 marzo. Secondo l’agenzia Onu, questo aumento è dovuto “soprattutto” alla rapida crescita della popolazione in diversi Paesi dove viene praticata la mutilazione genitale femminile. Diminuisce contestualmente anche la percentuale della popolazione mutilata ma è ancora inferiore rispetto al numero che invece cresce. Secondo Wisal Ahmed, coordinatore del programma congiunto del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA) e dell’UNICEF contro le MGF, dovremmo andare “ventisette volte più velocemente” per raggiungere l’eradicazione entro il 2030, che è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dalle Nazioni Unite.



“Le ragazze vengono sottoposte a questa pratica dannosa in età sempre più giovane, spesso prima del loro quinto compleanno, il che riduce ulteriormente la nostra finestra di intervento”, ha sottolineato in un comunicato stampa il direttore generale dell’Unicef, Catherine Russell. Le mutilazioni vengono eseguite in nome della castità e la presunta purezza. Secondo l’UNFPA ciò implica il controllo della sessualità delle donne e la garanzia della loro verginità. In varie comunità, come ricorda Le Monde, la mutilazione degli organi genitali è una condizione per l’accesso al matrimonio. Tale pratica può rivelarsi un fattore decisivo per l’inclusione sociale e far parte dei rituali di formazione spesso percepiti come un comandamento religioso.



Mutilazione genitale femminile, i tipi di intervento e le complicazioni

L’UNFPA e l’Organizzazione Mondiale della Sanità distinguono tre tipi principali di mutilazione genitale femminile. Il primo è la clitoridectomia, ovvero la rimozione totale o parziale del clitoride o anche del prepuzio clitorideo. La seconda, comunemente chiamata escissione, riguarda l’asportazione totale o parziale delle piccole labbra ed eventualmente delle grandi labbra; il terzo tipo, detta infibulazione, comporta il restringimento dell’apertura vaginale tagliando e riposizionando le labbra, talvolta utilizzando una sutura. Tale pratica ha nella maggior parte dei casi il controllo della sessualità delle donne: si tratta di operazioni che hanno rischi per la salute a breve termine elevati (forte dolore, emorragia, infezioni) e possono portare alla morte. A medio e lungo termine insorgono spesso complicazioni come difficoltà ad urinare, mestruazioni dolorose, dolore durante i rapporti sessuali e parto difficile con rischio di vita per il neonato.



Secondo il rapporto dell’Unicef, delle ragazze e donne colpite, circa 144 milioni vivono in Africa, 80 milioni in Asia e 6 milioni in Medio Oriente. I tre Paesi con la più alta prevalenza sono la Somalia, dove il 99% delle ragazze e delle donne ha subito mutilazione, la Guinea (95%) e Gibuti (90%). L’infibulazione, a cui vengono sottoposte ogni anno mezzo milione di ragazze e considerata la forma di mutilazione più grave, è praticata soprattutto in Sudan, dove rappresenta circa il 70% dei casi, e in Somalia (oltre il 40%). Non tutti i Paesi, però, hanno visto crescere la pratica. Infatti Sierra Leone, Burkina Faso ed Etiopia hanno registrato riduzioni notevoli, nell’ordine dal 30% al 50%.

Mutilazione genitale femminile, perché la medicalizzazione non è la soluzione

Somalia, Mali e Gambia non hanno fatto registrare alcun miglioramento nella riduzione della mutilazione genitale femminile. Secondo Isabelle Gillette-Faye, sociologa e direttrice generale del Gruppo federale per l’abolizione delle mutilazioni sessuali e del matrimonio, “la medicalizzazione (intervento praticato da medici, ndr) previene complicazioni a breve termine come l’emorragia, ma non ha alcun effetto complicazioni a medio termine come infezioni urogenitali ripetute e difficoltà ostetriche, e non modifica il dolore durante i rapporti”. Inoltre la medicalizzazione può rappresentare una fonte di reddito per il personale sanitario e quindi rallentare gli sforzi dell’Unicef.