Poche ore dopo l’omicidio di Nada Cella c’era già una precisa pista su chi potesse essere l’assassino della segretaria 25enne, massacrata il 6 maggio 1996 nell’ufficio dello studio del commercialista Marco Soracco a Chiavari. Ma è emerso un quarto di secolo più tardi, grazie alle dichiarazioni di un frate cappuccino che ha deciso di parlare al di fuori del segreto confessorio. Al pm genovese Gabriella Dotto ha raccontato che la madre del commercialista gli disse che il figlio era innocente, «perché l’autrice dell’omicidio era una donna, proprio quella che si era invaghita del figlio». Il religioso ha aggiunto di essere convinto che la mamma di Soracco non si sia mai confessata del tutto con lui. «Qualcuno le aveva detto di mantenere il più assoluto riserbo sulla vicenda… ritengo che si riferisse ad alti prelati con cui si confidava… la famiglia Soracco aveva molti legami con la curia».



Solo un eventuale processo chiarirà se Anna Lucia Cecere, 55enne indagata per l’omicidio di Nada Cella, sia davvero l’assassina. Di certo ci sono silenzi, segreti, omertà e clamorosi errori. Li evidenzia Repubblica dopo l’analisi delle 95 pagine con cui il gip Angela Maria Nutini ha fissato al 15 febbraio l’udienza preliminare nei confronti di Cecere, accusata di omicidio volontario, oltre che di Marco Soracco e della madre Marisa Bacchioni, accusati di favoreggiamento e false dichiarazioni.



LA PROVA DIMENTICATA, GLI ERRORI E LE CONFIDENZE

Nell’omicidio di Nada Cella c’è una prova dimenticata, quella del bottone insanguinato. Nell’ufficio, in una chiazza della ragazza fu trovato un bottone con un filo rosso attaccato, a un punto da pinzatrice, a un seme e ad un ciuffo di capelli. Nella casa di Anna Lucia Cecere furono trovati cinque bottoni che sembrano uguali a quello trovato sul luogo del delitto. Quattro militari sentiti ora dalla pm ricordano di aver esultato a quel ritrovamento. Pensavano che il caso fosse risolto, ma la comparazione venne fatta solo con le foto e non ci si accorse che il bottone insanguinato era diverso, perché mancava una cornice di plastica che ora la procura sa che esisteva grazie alla consulenza del titolare del Museo del bottone di Sant’Arcangelo di Romagna. Ma i bottoni all’epoca vennero restituiti e la posizione di Cecere venne archiviata. Eppure, il dirigente del commissariato e un ispettore sono risultati all’oscuro di questo ritrovamento di bottoni. L’ipotesi della procura, che si è avvalsa del lavoro della criminologa Antonella Pesce Delfino, consulente della famiglia d Nada Cella, è che la segretaria venne uccisa da Cecere per gelosia, ma che il delitto venne avvolto da una rete di segreti.



Infatti, gli inquirenti secondo Repubblica ritengono che Soracco sarebbe entrato in studio mentre Cecere era ancora nella stanza e che con la madre non volesse che si sapesse della relazione con una donna non ritenuta all’altezza per le sue umili origini. Inoltre, avrebbero temuto che indagini approfondite potessero portare alla luce affari non propriamente puliti. Quindi, Cecere sarebbe stata innamorata o interessata a sposarlo per assicurarsi una vita agiata, al punto da uccidere la segretaria per una gelosia peraltro mal riposta visto che la ragazza non sopportava il suo datore di lavoro. Tutti aspetti che il commercialista ha sempre negato, ma ora si scopre che un anno dopo il delitto lo zio di Nada Cella andò alla polizia per riportare alcune confidenze della nipote: aveva notato grosse somme di denaro, contenuto in busto, girare in ufficio e riceveva avances in modo pressante dal titolare. Allo zio avrebbe raccontato che il titolare aveva compreso che lei aveva scoperto dei giri di denaro sospetto e le aveva detto che non le avrebbe più permesso di lasciare l’ufficio.

OMICIDIO NADA CELLA, LE CONCLUSIONI DEL PM

In una recente perquisizione nell’alloggio dove vivono Soracco e la madre, sopra lo studio, è stato rivenuto un manoscritto riconducibile alla sorella di lei, intitolato “storia di un delitto quasi perfetto” verosimilmente scritto fino all’anno 2000. In alcune pagine si parla di una vicina che vide scappare dalle scale una donna, ma non lo disse alla polizia nel timore di rappresaglie. Dalle indagini è poi emerso che la pinzatrice e il fermacarte sarebbero le armi del delitto, ma la pinzatrice non compare nelle foto della scientifica scattate quel giorno, mentre è ricomparsa dieci giorni dopo tra le attrezzature della polizia scientifica, che forse aveva escluso la rilevanza per le indagini. Stando a quanto riportato da Repubblica, la procura di Genova ritiene probabile che quei due oggetti furono ripuliti dalla madre di Soracco, come il sangue sul pavimento. Nonostante gli elementi raccolti e gli errori ammessi, Cecere e Soracco in questi ventisette anni non hanno mai ammesso alcun tipo di responsabilità, pur in presenza di evidenti contraddizioni.

Nei confronti di Cecere pesa una importante serie di testimonianze, seppur rese molto tempo dopo l’omicidio, oltre al ritrovamento dei 5 bottoni che ora la procura di Genova ritiene dello stesso tipo di quello ritrovato sul luogo del delitto. D’altra parte, una serie di esami sui reperti dell’epoca non hanno prodotto riscontri. Ma la pm Gabriella Dotto rimarca che Cecere, dopo aver appreso dai media che si stavano effettuando esami del sangue recuperato e su alcuni capelli, ha chiamato un’amica infermiera per avere informazioni sulla tempistica del test del Dna e se si possono «trovare cose» anche a distanza di molti anni. D’altra parte, le intercettazioni possono essere interpretate come un tentativo da parte di una persona innocente di informarsi sui tempi di un esame da cui dipende il suo futuro. L’impressione della pm, però, è che i soggetti indagati si siano costruiti una verità alternativa che ripropongono ancora, nonostante «smaccate e incontestabili contraddizioni» e appare evidente «che l’accertamento della responsabilità della Cecere avrebbe comportato un qualche gravissimo rischio di coinvolgimento anche per il figlio».