La presidenza del Consiglio, ieri, ha voluto smentire ufficialmente Repubblica, che aveva sparato in prima un (presunto) “patto Meloni-Draghi”. Poche ore dopo, però, quando il Consiglio dei ministri ha approvato la Nota di aggiornamento al Def – cioè l’ultima “brutta copia” della Legge di bilancio 2023 – è stato difficile non pensare che il premier uscente e il suo ministro dell’Economia Daniele Franco non abbiano in qualche modo preparato il terreno per il nuovo Governo, in gestazione dopo il voto di domenica scorsa.
Due altissimi civil servant come Draghi e Franco potranno sempre dissimulare ogni intento vagamente politico, estraneo al loro dovere istituzionale di figure chiave di un esecutivo di salute pubblica. E in buona misura ciò corrisponde alla realtà. Ma è altrettanto prassi classica – nelle transizioni ai vertici dei Governi come in quelli delle grandi multinazionali – vedere intonsa la pila dei dossier scottanti e lasciata i nuovi entranti la responsabilità di comunicare fatti scomodi: come ad esempio il taglio allo 0,6% della crescita 2023. Invece Palazzo e Chigi e il Mef hanno prescritto – sotto la loro firma – un quadro di orientamento realistico di politica finanziaria in sé prezioso per l’incoming Premier Giorgia Meloni.
Nessun premier “in prorogatio per gli affari correnti” salvo Draghi si sarebbe potuto permettere di asseverare un outlook 2023 dando per scontato in modo crudo che “la guerra continua”. Che però “l’inflazione comincerà a scendere entro fine anno”, anche se oggi – e prevedibilmente quando il nuovo Governo chiederà la fiducia – il boom dei costi dell’energia sarà ancora spaventosamente alto. E solo l’aplomb di Draghi ha potuto mettere in guardia: il Pil comincerà sì a risalire, ma solo gradualmente (+1,8% nel 2024 e +1,5% nel 2025). Nessuno avrebbe potuto assegnare al prossimo esecutivo “compiti a casa” come questi: “Nelle proiezioni aggiornate per il 2022 la finanza pubblica beneficia del positivo andamento delle entrate e della moderazione della spesa primaria sin qui registrate quest’anno, mentre risente dell’impatto sul servizio del debito dell’aumento dei tassi di interesse e della rivalutazione del nozionale dei titoli di stato indicizzati all’inflazione”. Non è un auto-elogio gratuito: è quello che Draghi ha detto un mese fa nel suo terzo discorso di Rimini (dopo quelli del 2009 e del 2020), il giorno dopo che al Meeting era passata Meloni. La “moderazione della spesa primaria” è un consiglio stringente, “l’impatto del servizio del debito dell’aumento dei tassi” è un monito. Sono snodi dell’Agenda Draghi, quella vera.
Non mancano gli auguri finali, formalmente a firma del ministro: “L’auspicio è che, in un contesto di graduale riduzione del deficit e del debito pubblico, la ripresa economica avviata dopo la crisi pandemica prosegua e si consolidi, sostenuta dagli investimenti privati e pubblici, da tassi di occupazione più alti e da una dinamica della produttività più elevata”. Sono aperte le scommesse su quanto il discorso d’insediamento del nuovo premier – (chiunque sarà) di scosterà da questa – apparentemente burocratica – “Nota aggiuntiva”.
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