L’economia italiana è in stallo. Mentre si accendono analisi e polemiche sulla prossima Legge di bilancio, partendo dal quadro realistico e non certo ottimista che ci mostra la Nadef, l’Ufficio studi della Confindustria pubblica una nota congiunturale deprimente. Alcuni fattori oggettivi hanno tirato il freno dell’industria e dei servizi, la domanda interna è colpita da un’inflazione che non scende a sufficienza nella media e non si riduce affatto per il carrello della spesa, la domanda estera è condizionata dalla stagnazione tedesca e dal fiacco andamento della Cina, il costo del denaro è troppo elevato e spinge famiglie e imprese a tirare i temi in barca.



A questo s’aggiunge un fattore per così dire soggettivo perché ha a che fare con la politica economica. Il disavanzo aumenta, il debito non si riduce, la crescita langue, ma soprattutto s’affaccia un pericolo finora sottovalutato: l’aumento nominale del Prodotto interno lordo (dunque inflazione compresa) secondo le previsioni del Governo sarà di circa il 4,1%, tendenziale è del 3,9%, quindi la politica di bilancio aggiungerà appena lo 0,2%. Intanto il rendimento medio dei Btp spinto in alto dai tassi d’interesse stabiliti dalla Bce e dalla necessità di collocare sul mercato sempre più titoli di stato, arriva al 4,3%. Se è così l’Italia cammina su un filo che diventa ogni mese più sottile.



Per pagare un debito che viaggia imperterrito verso i 3.300 miliardi di euro nel 2025, serviranno sempre più risorse sottratte a impieghi produttivi, secondo la Nadef serviranno ben 104 miliardi di euro l’anno prossimo. Si può criticare la Bce perché ha rincarato il denaro troppo bruscamente con dieci aumenti successivi, anche se forse la sua vera colpa è di essere partita troppo tardi. Ma il vulnus nei conti pubblici italiani si chiama debito. Possiamo essere iper keynesiani come il Governo Meloni che pratica troppo tranquillamente il deficit spending, ma cosa direbbe Keynes vedendo che cresce l’indebitamento e non l’economia, esattamente il contrario di quel che voleva l’economista inglese?



La manifattura è in sofferenza. Fatto 100 il primo trimestre del 2022, nel terzo trimestre di quest’anno siamo a due punti in meno, crolla la produzione dei beni intermedi (meno 6%), mentre le costruzioni si sgonfiano bruscamente dopo la bolla del superbonus (meno 4 e rotti per cento). Sempre più aziende decidono di non accedere a prestiti per le condizioni troppo severe, mentre la disponibilità di denaro liquido si assottiglia. Inoltre, le imprese con vecchi debiti si ritrovano a pagare rate più onerose. Aumenta il peso dei mutui per chi li ha accesi a tasso variabile, è vero che sono una minoranza, ma diventano il benchmark per le aspettative delle famiglie che ricorrono ai prestiti. Deboli sono anche i servizi, mentre il turismo ha deluso le speranze di continua a raccontarci che è “il petrolio dell’Italia”, la quale purtroppo è solo al quarto posto in Europa, dopo Francia, Grecia, Spagna.

Le stime del Governo non sono troppo ottimistiche? L’Ocse prevede un Pil che sale dello 0,8% soltanto sia quest’anno sia l’anno prossimo, più pessimista Prometeia secondo la quale il 2023 segnerà un modestissimo 0,7% in più rispetto all’1,2% della Nadef, mentre nel 2024 arriveremo se tutto va bene a un più 0,4%. L’istituto economico bolognese conferma che lo stimolo da parte del bilancio pubblico sarà esiguo. Tolto il finanziamento dei contratti pubblici e delle spese necessarie, le risorse disponibili per nuovi interventi di sostegno sono davvero risicati a pochi decimi di Pil. Non darà un contributo consistente nemmeno il Pnrr non solo perché non si riesce ancora ad aprire abbastanza cantieri, ma perché la modifica proposta finisce per ridurre l’entità degli investimenti pubblici. Aggiungiamo i costi dell’energia che si assesteranno su livelli comunque più alti anche quando i rialzi saranno riassorbiti (il 70% in più rispetto a prima della pandemia secondo Prometeia). Anche i prezzi i generi alimentari saranno più cari: oggi continuano a crescere a ritmo doppio rispetto alla media dei prezzi al consumo (gli ultimi dati oscillano tra +9 e +10%) e l’anno prossimo saranno comunque del 20% più elevati rispetto al 2019. I salari non saranno in grado di compensare la stangata al potere d’acquisto delle famiglie.

La Legge di bilancio, così, rinvia di un paio d’anni il contenimento del deficit entro il 3%, ma ciò non genera veri benefici alla crescita del Pil. Ciò significa che anche il debito pubblico sul Pil non si riduce, nel migliore dei casi ristagna al 140%. Dunque, il Governo decide di sfidare il Patto di stabilità che in un modo o nell’altro (cioè più rigido o più flessibile) ripristina i vecchi parametri (3% sul Pil il deficit e 60% il debito) senza dare nessuna spinta propulsiva. Se bisognava violare le regole, allora tanto valeva portare la sfida fino in fondo e puntare tutto sulla crescita del Pil. Una scelta azzardata, ma a suo modo coerente.

C’è da chiedersi se c’è della logica nella strategia del vorrei, ma non posso. A meno che non sia la logica delle mancette che fingono di accontentare tutti, ma alla fine non giovano a nessuno.

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