A un anno di distanza dalla sua scomparsa, tutti i media parlano di Nadia Toffa, la “Iena” più amata e che più amava. Colei che disse, senza giri di parole, che “il cancro si chiama cancro”, è un’attrazione assoluta. È come l’incidente che avviene nella corsia accanto alla tua: quella cosa che tutti – ma proprio tutti – si fermano per guardare, anche solo per un istante.



In particolare, ieri sera, “Le Iene” hanno reso omaggio alla loro indimenticabile giornalista e inviata con uno speciale di tre ore in prima serata su Italia Uno.  È stata un’iniziativa bellissima della sua famiglia televisiva: un album dei ricordi più affettuosi con contenuti inediti, interviste, racconti e immagini che ripercorrono momenti salienti della vita lavorativa di Nadia. La puntata aveva l’obiettivo di ricordare una donna eccezionale, sicuramente forte e di cui io, e noi del Sussidiario, abbiamo parlato sempre benissimo come doveroso. Lo abbiamo fatto per la sua forza nella malattia, ma non solo. Era doveroso sottolineare anche  l’impegno nell’inchiesta sull’Ilva di Taranto, quello per i tanti bimbi malati della città verso i quali ha mobilitato tanti cuori, per le sue dirette sulla Terra dei fuochi, e così via.



“Mi vivi dentro” sono le parole che vorrei molti dicessero alla mia morte. Sono parole di riconoscimento, di rispetto, di amore, di fede. Di tutto quello che di meglio l’uomo può essere nella vita. “Mi vive dentro” sono le parole più esatte che mi vengono alle labbra quando devo parlare della morte di qualcuno che mi è caro. Credo non ci sia dichiarazione d’amore, e quindi di vita, più vittoriosa di questa. “Mi vivi dentro” sono le parole che raccontano esattamente il motivo dello straordinario successo mediatico di Nadia, in vita e “post mortem”. Ma proprio in questo successo si nasconde il rischio di un enorme fraintendimento. Il rispetto e la commozione per Nadia Toffa e la sua vita rischiano di diventar retorica, un appiattimento che può perfino rischiare di offuscare la sua prova umana, il dolore che lei ha vissuto. 



È il rischio che l’ammirazione, la gratitudine, la commozione, diventino fanatismo. Addirittura, i genitori di Nadia sono stati costretti  a tenere segreto il luogo della sepoltura della figlia per scongiurare il pericolo del furto del cadavere come avvenne, a scopo ricattatorio, per Mike Bongiorno. Sono certo che Nadia sarebbe stata la prima a opporsi a questa sorta di santificazione laica: soprattutto alla luce di quella fede fattasi più forte proprio con l’esperienza della malattia e della quale parlò così bene don Maurizio Patricello al suo funerale.

Penso che Nadia sarebbe più felice se abbassassimo le luci da lei e dessimo più notorietà ai molti progetti che sono nati in sua memoria. A quelli solidali, per la legalità, che comportano un reale contributo per la salute e la ricerca, o per il buon giornalismo. Dai frutti riconoscerete l’albero, dice il Vangelo: e poiché la vita di Nadia di frutti ne ha dati tanti, guardiamo di più ad essi e alla generatività della sua vita.