Tra gli anniversari che hanno occupato il 2021 c’è sicuramente il bicentenario della morte di Napoleone. Sul grande corso si è detto molto, ma forse non tanto sul rapporto che egli intrattenne con la Chiesa e con il papato, né sulla sua personale visione religiosa. Ad indagare questo aspetto non trascurabile dell’uomo e dell’imperatore ci aiuta il libro di Luca Crippa, uscito proprio quest’anno, dal titolo Napoleone e i suoi due Papi (San Paolo 2021). L’autore propone di rubare ad Alessandro Manzoni la domanda: “Fu vera gloria?” trasformandola in quest’altra: “Fu vera fede?”.



Napoleone Bonaparte apparteneva ad una famiglia di provincia, della piccola nobiltà, di origini italiane, più precisamente toscane. La madre era credente e praticante, mentre il padre, convinto illuminista, scriveva e distribuiva articoli contro la religione. Era inoltre attivo seguace di Pasquale Paoli, capo del partito che intendeva portare la Corsica all’indipendenza dalla Francia, la quale aveva acquistato l’isola dalla Repubblica di Genova nel 1768 per 40 milioni di franchi.



Il piccolo Napoleone imparò a leggere e scrivere a cinque anni, e sviluppò presto una grande passione per la lettura. Nella sua educazione però non risultano esserci stati libri devozionali come le vite di santi né la Bibbia. I suoi libri preferiti riguardavano i grandi personaggi storici visti come esempi da imitare, la cui lettura raccomanderà poi anche ai suoi soldati, e i pensatori contemporanei, come Voltaire e Rousseau. Studiò in Francia, prima nella scuola militare di Brienne dove emerse ben presto la sua superiorità intellettuale, e poi in quella reale di Parigi.

Subito dopo lo scoppio della rivoluzione, nell’agosto del 1789, indeciso su quale partito gli convenisse abbracciare per fare carriera ed avere successo, tornò in Corsica e vi restò per diciotto mesi. Anche nel 1792, allo scoppio della guerra della Francia contro l’Austria e la Prussia, Napoleone era in Corsica, dove aveva guidato senza successo un reparto della Guardia nazionale corsa contro le truppe francesi. Tornato a Parigi, fu reintegrato nell’esercito con il grado di capitano, ma la sua occasione d’oro fu l’assedio di Tolone, città dove dominavano i controrivoluzionari, nel quale si distinse per le capacità organizzative, la competenza, il genio militare. Non gli mancavano senso del dovere e coraggio, così che fu nominato comandante in capo dell’artiglieria e qualche mese dopo generale. Aveva 24 anni, e scoprì grazie a Tolone qual era la sua vera religione: il culto di se stesso, che d’ora in poi non abbandonerà più. Scelse di stare coi vincitori e non lo turbò il fatto che i giacobini riconquistata Tolone si abbandonassero a saccheggi, stupri, esecuzioni di massa: “Dal giorno del nostro ingresso abbiamo tagliato quotidianamente 200 teste”, dissero.



Nel 1796 il Direttorio lo nominò comandante dell’Armata d’Italia. In una Francia in preda al caos e prossima alla guerra civile, in cui l’unica forza su cui si poteva contare per mantenere l’ordine era l’esercito, Napoleone, già potente e rispettato, acquisì nuovo prestigio dalle vittoriose campagne militari. Tralasciando la storia di tali campagne e le novità ivi introdotte dal generale, e tralasciando pure il conflitto che si era aperto – già dalla Costituzione civile del clero – tra i giacobini e la Chiesa, conflitto esasperato dai provvedimenti anticristiani e dall’opera di scristianizzazione successiva, arriviamo all’ingresso trionfale a Milano il 15 maggio 1796 delle truppe francesi al comando di Napoleone. Inflitte altre sconfitte agli austriaci, proseguì verso est e, occupate Bologna e Ferrara, strappò allo Stato della Chiesa l’Emilia e la Romagna, suscitando enorme sconcerto e timore in papa Pio VI.

Inutilmente quest’ultimo aveva rivolto un appello antifrancese e chiamato alle armi le popolazioni a lui sottomesse, in quanto facilmente le truppe pontificie furono sopraffatte in Romagna nel gennaio 1797. Il mese dopo, il papa accettò il trattato di Tolentino: cedeva alla Francia le sue terre migliori (oltre alle Legazioni pontificie, Ancona e il suo porto), avrebbe pagato il tributo di guerra fissato in 31 milioni di franchi, e avrebbe ceduto preziose opere d’arte, insieme a codici antichi, perle, diamanti.

Quando, verso la fine dello stesso anno, in uno scontro tra repubblicani e soldati pontifici, a Roma fu ucciso un generale francese, il Direttorio ordinò l’occupazione dello Stato pontificio. Il generale Berthier entrò al comando delle truppe francesi in città dove il 15 febbraio 1798 verrà proclamata la Repubblica Romana. Pio VI, che aveva 81 anni, fu costretto all’esilio, inizialmente a Siena, poi a Firenze. Mentre Napoleone era in Egitto, il Direttorio fece invadere la Toscana, così il papa fu trasferito – vecchio, stanco, malato com’era – a Valence dove trovò la morte nel 1799.

Il nuovo papa fu Pio VII, eletto nel 1800 da un conclave che dovette riunirsi a Venezia, sotto la protezione dell’Austria. Aveva 58 anni ed era come il suo predecessore originario di Cesena. Riuscì a tornare a Roma qualche mese dopo, in seguito alla cacciata dei francesi attuata da austriaci e napoletani.

Napoleone avviò delle trattative col nuovo pontefice, in vista della stipulazione di un Concordato con la Santa Sede e spinto dall’opportunità politica di porre fine al dissidio che la rivoluzione aveva provocato con i cattolici. Il papa dal canto suo avvertiva la necessità di riavvicinare alla Chiesa i milioni di fedeli francesi disorientati e rimasti in quegli anni senza pastori. Nel 1801 fu sottoscritto il testo finale del Concordato, che dichiarava il cattolicesimo religione della grande maggioranza del popolo francese, garantiva l’esercizio pubblico del culto, stipendiava il clero, attribuiva al capo dello Stato la nomina dei vescovi, da concordare con il papa che comunque si riservava di deporre i vescovi costituzionali. Ma subito dopo Napoleone fece approvare una serie di “articoli organici”, di impronta gallicana, che restringevano le libertà d’azione degli ecclesiastici.

Nel 1804 Pio VII, invitato a recarsi a Parigi per l’incoronazione del nuovo imperatore nella cattedrale di Notre Dame, accettò l’invito. Nel corso della sfarzosa cerimonia, come è noto, Napoleone si autoincoronò e poi passò a incoronare la moglie Joséphine, mentre il papa assisteva e di fatto approvava.

Tuttavia l’intesa tra i due poteri non era destinata a durare a lungo: già nel Codice civile varato da Napoleone nel 1805 fu introdotto in modo arbitrario e unilaterale il divorzio. Si arrivò allo scontro aperto quando il Bonaparte decretò l’annessione all’impero di quel che restava dello Stato pontificio (Umbria, Marche, Roma e il Lazio), nel 1808. Le truppe francesi, occupata Roma, ne trascinarono fuori il papa prigioniero. Egli, dopo un viaggio disastroso, passando per Grénoble, fu condotto a Savona e vi rimase per tre anni. Nel tentativo di piegarlo al suo volere, l’imperatore lo fece trasferire in terra di Francia, a Fontainebleau, ma Pio VII non cedette alle pressanti richieste che lo avrebbero costretto al ruolo di cappellano dell’impero in un’ottica cesaropapista.

A quel punto Napoleone fece portare di nuovo il papa a Savona e, dopo le prime gravissime sconfitte, nel 1813 lo fece riaccompagnare a Bologna. Da qui egli rientrerà a Roma, accolto trionfalmente, per riprendere la guida dello Stato pontificio e della Chiesa intera.

Senza nulla togliere alla visione provvidenziale e pacificante che Alessandro Manzoni dà degli ultimi anni a sant’Elena e della morte di Napoleone, morte accompagnata dai conforti religiosi, è lecito concludere che colui che dai contemporanei veniva chiamato l’Anticristo non era stato uomo particolarmente devoto a dei princìpi, ma essenzialmente un politico ambizioso. “L’ambizione è così strettamente legata alla mia natura che le due cose non si possono distinguere” ebbe a dire. E forse l’ambizione fu il suo grande peccato, nella vita personale come nel progetto politico.

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