La crisi sanitaria ha colto Napoli in una fase decisamente particolare della sua storia recente. L’impatto del turismo di massa aveva innescato un processo, che seppur deregolamentato, caotico e improvvisato, stava trasformando la città.
Un cambiamento ricco di contraddizioni che anche nella “Napoli siccome immobile” di cui parlava Aldo Masullo sembrava poter dare alla città una qualche forma di ottimismo con cui guardare al futuro. Un processo basato sulla rendita immobiliare e su una forza lavoro non specializzata e non garantita, che ha permesso al tessuto sociale cittadino di assorbire eventi traumatici come la crisi di importanti realtà produttive come quella della Whirlpool. Si chiudevano le fabbriche e si aprivano i B&B, ma in qualche modo la città provava a darsi delle risposte sul suo futuro.
Se il post pandemia ci dirà molto circa la reale consistenza del tessuto informale sul quale si è retta negli ultimi anni l’economia cittadina e sul destino della quota di lavoratori che ha assorbito il settore turistico, conviene interrogarsi sullo strano mood che avvolge la città.
Napoli sembra trattenere il respiro, cercando di capire cosa le serba il futuro, sospesa tra paura e incertezza. Dopo essersi inebriata di se stessa e aver appagato la propria vanità donandosi in modo fin troppo generoso ai turisti che hanno preso d’assalto le vie del centro, e dopo aver reso la sua identità un prodotto di successo – da declinare in base ai propri gusti e, perché no, pregiudizi – da vendere all’immaginario collettivo nazionale, Napoli ha affrontato la pandemia in un modo che ha sorpreso in molti.
La compostezza dei quartieri popolari con case da spazi angusti e da condividere ha liberato il campo dalle tante rappresentazioni che in uno strano gioco di specchi la città ha costruito nel suo complesso rapporto con il resto della nazione. La stampa nazionale ha dovuto cercare altrove il luogo ideale su cui indirizzare il proprio biasimo, e addirittura si è trovata a fare i conti con il presidente della regione che si è distinto per rigidità e rigore, spiazzando chi alimenta le stereotipate narrazioni sulla città.
Ma le grandi questioni sono state rimosse, come se il momento di “sospensione” che si avverte dovesse durare per sempre e le tensioni sociali che in qualche modo – informale e sotterraneo – sono rimaste sopite fossero state risolte definitivamente. “La città sospesa, come il caffè”, potrebbe essere l’ennesima etichetta da affibbiare alla città, con cui arricchire l’infinita galleria di definizioni elaborata dal ceto intellettuale cittadino, sempre molto disponibile a trovare delle semplificazioni a cui ricondurre la realtà della città. Come se da Benjamin in poi fosse d’obbligo inventarsi delle figure in cui imbrigliare la vitalità della città, magari in attesa dell’ennesimo “rinascimento cittadino” con cui legittimare la più parolaia e inconcludente delle classi dirigenti. In definitiva, la pandemia ha fatto emergere la realtà concreta della città, nella sua materialità e nella sua crudezza.
Per questo motivo risulta particolarmente interessante il tentativo di chi ha fatto emergere la singolarità del momento. Ha ragione chi ha parlato di una nuova rappresentazione della città che sorprende e coglie impreparati, perché per la prima volta “vera”, cioè formata su problemi concreti che si manifestano nella loro urgenza e complessità. Al netto dei proclami e del rimbalzo di responsabilità che in questo momento rendono ancora più surreale il comportamento di chi si sente già in campagna elettorale, il dibattito cittadino per una volta risulta particolarmente interessante.
La comparazione con le emergenze che la città ha vissuto nel passato, che un po’ ovunque campeggiano negli editoriali della stampa locale, palesa il sentimento diffuso che la crisi in atto segna a Napoli, più che altrove, una differenza fra il prima e il dopo emergenza sanitaria. Anche per questo motivo l’invito, su un giornale cittadino, a “riprogettare la città” di Lucio D’Alessandro non risulta rientrare nella consuetudine degli intellettuali napoletani a lanciare appelli. L’idea è semplice: partire dalla risposta che la città ha dato all’emergenza, puntare sulle eccellenze presenti nell’area metropolitana e individuare poche idee-forza con cui immaginare il futuro della città.
Il fatto che nella proposta di D’Alessandro possa essere la rivista “Napoli nobilissima” ad ospitare il dibattito sul futuro di Napoli ha una notevole portata simbolica. La rivista fondata nel 1892 da Benedetto Croce e Salvatore di Giacomo nella Napoli del Risanamento che doveva affrontare le conseguenze del colera, in questa fase potrebbe fungere da contenitore per un dibattito aperto e senza timori reverenziali e da palestra per chi vuole cimentarsi nel ruolo di classe dirigente.
Potrà sembrare ingenuo augurarsi che la città delle piccole corporazioni e delle rendite politiche e intellettuali possa aprirsi al confronto, ma se la pavidità che ha contraddistinto la classe dirigente cittadina dovesse ancora tradursi in autoreferenzialità, l’opportunità rappresentata dal “reset” ideale compiuto dalla pandemia, non sarebbe semplicemente l’ultima delle tante occasioni perse, ma l’inizio di una crisi strutturale i cui esiti al momento risultano imprevedibili. Perché quando la crisi sanitaria cederà il passo alla crisi sociale, converrà farsi trovare preparati.
Anche per questo motivo conviene ascoltare chi ha avviato la discussione su quali strumenti analitici e pratici utilizzare per immaginare la Napoli dei prossimi anni.