“Aveva ragione Nenni”, ripeteva spesso, soprattutto quando arrivò il cinquantesimo anniversario della tragedia ungherese del 1956. Giorgio Napolitano, scomparso ieri a 98 anni, era diventato presidente della Repubblica italiana da pochi mesi. Era stato eletto al Quirinale il 19 maggio 2006, alla quarta votazione, ed era il primo presidente della Repubblica italiana che aveva avuto un passato e una posizione da grande leader nel Partito comunista fin dagli anni Cinquanta del Novecento.
Verso la fine di settembre del 2006, quindi da poco presidente, Napolitano fece una visita ufficiale in Ungheria. Nel nuovo cimitero di Budapest, rese onore alla vittime della rivoluzione democratica ungherese del 1956 e al loro leader Imre Nagy. Nel settore dedicato ai martiri della rivolta, Napolitano non si limitò, come da visita ufficiale, a ricevere gli onori militari. Prima ascoltò il “Silenzio” e poi, visibilmente commosso, depositò una ghirlanda di fiori al monumento che ricorda i caduti della resistenza magiara repressa nel sangue dai carri armati sovietici.
Poi, ancora più commosso, si spostò nel settore del cimitero dove c’è la tomba di Imre Nagy, il leader della rivolta ungherese, considerato dal Pci dell’epoca un reazionario traditore e che quindi fu condannato a morte dagli esponenti dei partiti filo-sovietici per alzata di mano (tra questi naturalmente c’era Palmiro Togliatti).
Qui, sulla tomba di Nagy, come per liberarsi di un “peso insopportabile” durato cinquant’anni, Napolitano depose un mazzo di rose.
Bisogna aprire un piccolo retroscena. Antonio Giolitti, nipote del grande Giovanni, era stato iscritto al Pci ed era uscito polemicamente dal partito, sollevando per primo la contestazione alla linea filo-Urss del partito nel 1956. Fu Giolitti che cercò di tranquillizzare Napolitano dall’incubo che lo tormentava da cinquant’anni. Il 13 maggio 2006, mentre la sua candidatura al Quirinale appariva sempre più chiara, aveva detto a Napolitano: “il tuo lungo percorso sana la mancata condanna nel 1956”. Ma quella era appunto una ferita aperta e Napolitano apprezzò talmente quello che gli aveva detto Giolitti, che due giorni prima di giurare al Quirinale andò a casa sua per rendergli pubblicamente un omaggio.
In quei giorni Napolitano ritornò spesso su quel tema. Ribadì più volte le posizioni espresse in passato. Con un messaggio secco a Giuseppe Tamburrano, allora presidente della Fondazione Nenni, Napolitano scrisse: “La mia riflessione autocritica sulle posizioni prese dal Pci e da me condivise nel 1956 e quindi il pubblico riconoscimento da parte mia ad Antonio Giolitti di aver avuto ragione valgono anche come pieno e doloroso riconoscimento della validità dei giudizi e delle scelte di Pietro Nenni e di gran parte del Psi in quel momento cruciale”.
Quella frase di Napolitano era un nuovo passo avanti che portava alla completa riscoperta positiva del Psi nella sinistra italiana, alla riscoperta del valore del riformismo. Se Togliatti brindava con un “ottimo vino” – come disse a Pietro Ingrao – quando i sovietici soffocarono la rivolta ungherese, Giorgio Napolitano ora ribadiva di essersi pubblicamente pentito di avere attaccato Giolitti e gli altri intellettuali che lasciarono il Pci o furono espulsi per “deviazionismo borghese”.
Nel ricordare la lunga vita di Giorgio Napolitano, si potrebbe condividere pienamente il titolo che Paolo Franchi, suo biografo, diede ad un proprio libro: Giorgio Napolitano. La traversata da Botteghe Oscure al Quirinale.
Il 1956 fu veramente un momento cruciale, non solo per la “guerra fredda”, non solo per il 20esimo congresso del Pcus, con il rapporto segreto di Nikita Kruscev che smascherava finalmente in modo chiaro e pubblico a tutto il mondo i crimini di Stalin e del comunismo sovietico; fu veramente un momento cruciale anche per la sinistra italiana.
È vero che durante la tragedia ungherese, fu solo un gruppo compatto, ma non eccessivo (il famoso “Documento dei 101”) che si ribellò alla linea togliattiana, ma tuttavia anche in Italia quel 1956 rivelò poco dopo all’interno dello stesso Pci, oltre che in tutto il mondo, la natura dittatoriale del comunismo.
Se in un primo momento uomini come Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano e molti altri restavano fedeli al Pci, all’interno del partito cominciava un dibattito che rimetteva in discussione il ruolo della sinistra nel suo complesso.
Il primo scossone nel partito si ebbe nel novembre del 1961, dopo il 22esimo congresso del Pcus. In quel comitato centrale (con la conclusioni di Togliatti che comparvero solo nel 2007), Amendola attaccò duramente sia la linea del partito sia lo stalinismo, al punto che Togliatti lo sollevò dalla funzione che esercitava nel partito: l’organizzazione. In modo critico intervennero in molti, tra cui l’allora giovane Giorgio Napolitano e tanti altri, al punto che Togliatti a un certo punto interruppe il dibattito, fece una riunione della direzione e disse esplicitamente che, se si continuava il dibattito in quel modo, di rottura con l’Urss, sarebbe stato lui a creare un partito filo-sovietico e ad espellere tanti altri dissidenti.
Poi arrivò il 1964, quando il 17 ottobre, su Rinascita, Amendola scatenò il finimondo proponendo un partito unico della sinistra, il superamento del leninismo e una scelta di socialismo riformista e occidentale.
È da quel momento che nel Pci nacque realmente quella che si chiamava corrente “migliorista”, anche se nel Pci esisteva il cosiddetto “centralismo democratico”. Una proposta, quella di Amendola, che avrebbe cambiato la storia della sinistra italiana.
Visto dall’esterno si riteneva che Napolitano fosse il naturale “delfino” di Amendola. Ci sono versioni differenziate, ma non c’è dubbio che con toni magari più sofisticati, Napolitano seguì sempre la linea migliorista o amendoliana, sia con la segreteria di Luigi Longo, sia con quella di Enrico Berlinguer, sia con quella di Alessandro Natta.
Certamente, anche se più prudente di Amendola, Napolitano è sempre restato un migliorista, ma ha probabilmente pensato anche di giocare le sue carte. A molti è apparso strano che in un altro comitato centrale del Pci (quello del novembre 1979), quando Enrico Berlinguer attaccò violentemente Amendola dicendogli che non “sapeva nulla di marxismo”, Napolitano non intervenisse e lasciasse che Amendola si difendesse, spalleggiato solo da Riccardo Terzi.
Tutto questo non vuol essere una critica, ma la constatazione di un grande personaggio, con un temperamento riflessivo e prudente, che è arrivato attraverso la gioventù comunista, attraversando anche alcune contraddizioni, a un pieno riformismo, a un dialogo con tutta la sinistra e con la socialdemocrazia europea.
Forse Napolitano ha rappresentato la figura chiave della lenta maturazione dall’estremismo comunista al recupero del riformismo e al riconoscimento insostituibile della democrazia. Non ha avuto l’impeto di Amendola, vero riformista comunista, essendo in fondo più revisionista che amendoliano; ma certamente ha avuto le sue stesse idee per il futuro di una sinistra moderna e democratica.
Non è un caso se gli fu rinnovato l’incarico di presidente della Repubblica per altri due anni fino al 2015. In fondo, Napolitano può rappresentare il passaggio verso la maturità democratica e la credibilità per un intero Paese, catturato spesso da una mentalità ideologica e faziosa.
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