Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace 2023, ha rilasciato una lunga e bella intervista oggi ai microfoni del Corriere della Sera. La 51enne sta scontando una pena in carcere a Teheran dopo essere stata arrestata 13 volte e condannata a 31 anni di galera e a 154 frustate. Ingegnera, vicepresidente del Centro dei Difensori dei Diritti Umani, nonché attivista e simbolo della lotta iraniana alla dittatura, ha parlato con il quotidiano di via Solferino rispondendo da una piccola cella che condivide con 4 persone presso la famigerata galera di Evin. «Stare lontano da un figlio è il dolore più atroce che si possa immaginare – spiega – il primo arresto è avvenuto quando Ali e Kiana avevano 3 anni e 5 mesi. Sono stata in isolamento, in un reparto di massima sicurezza. Non c’erano telefonate, né visite, non sapevo nulla di come stavano i miei bambini, ero tormentata. Ogni volta che penso a quel periodo, non posso credere di essere sopravvissuta a così tanta pena. Poi è andata anche peggio. La seconda volta che mi hanno arrestata e messa in isolamento, Kiana e Ali avevano 5 anni e Taghi era scappato a Parigi. In cella non facevo che pensare alla solitudine, all’impotenza dei miei figli, così piccoli, così soli: era insopportabile. Mi sono salvata solo grazie alla mia fede nella libertà per ogni essere umano. Così la sofferenza non diminuisce ma trova un senso. Non posso lamentarmi».



I suoi figli, che oggi hanno 17 anni, sono andati ad Oslo a ritirare il Premio Nobel: «Per me il Nobel è una dichiarazione di sostegno globale al movimento progressista d’Iran. È per l’Iran che si ribella». E ancora: «L’ultima volta che sono uscita di prigione era il 2020. Ho subito provato ad andare a Parigi dove vivono i miei figli e mio marito, ma mi è stato proibito di lasciare il Paese. Sono stata libera per un anno, poi mi hanno processata di nuovo e condannata. Per la quarta volta mi hanno messo in isolamento. Non mi hanno mai interrogata, né ho visto un avvocato. Sono stata condannata a otto anni e tre mesi e 74 frustate, quelli che sto scontando».



NARGES MOHAMMADI: “LA VIOLENZA NELLE CARCERI…”

Un mese fa le hanno negato il permesso di uscire dal carcere per una visita medica in quanto si era rifiutata di mettere l’hijab: «L’hijab obbligatorio non è un dovere religioso o un modello culturale, né, come dice il regime, il modo per preservare la dignità e la sicurezza delle donne. L’hijab obbligatorio è uno strumento per sottometterci e dominarci. È uno dei fondamenti della teocrazia autoritaria e io lo combatto con tutta me stessa. L’uccisione di Mahsa-Jina Amini e di centinaia di manifestanti nelle strade, l’uccisione di Armita Garawand per me sono e saranno per sempre un dolore che mi è entrato in gola. Non indossare il velo nemmeno per una visita medica necessaria è la mia protesta e la mia forma di resistenza contro l’oppressore: non farò mai un passo indietro».



Su come si vive nelle carceri iraniane: «La violenza sulle donne e soprattutto sulle manifestanti è costante, non solo qui. Sono stata testimone dei corpi contusi, spezzati e feriti delle detenute. Gli attacchi contro le prigioniere sono uno degli strumenti di repressione che il regime ha più usato nell’ultimo anno, sebbene sia sempre stata una pratica diffusa della Repubblica islamica. Io e le mie compagne abbiamo conosciuto l’isolamento e la massima sicurezza, tante sono le storie che abbiamo ascoltato di aggressioni sessuali. Poi c’è il livello superiore: le impiccagioni».

NARGES MOHAMMADI: “QUELLO CHE FANNO NEI CENTRI PSICHIATRICI…”

Ma c’è anche di peggio: «Le esecuzioni sono una delle gravi violazioni dei diritti umani. Le autorità fanno un’altra cosa terrificante di cui si parla meno: chiudono chi ha manifestato nei centri psichiatrici, la brutalità di quello che fanno dentro è sconvolgente. Ho protestato in carcere anche per loro». Oggi in carcere Narges Mohammad ha dato vita ad una nuova famiglia: «Oggi, tra le donne detenute, vedo più unità, empatia e motivazione alla lotta. Noi prigioniere politiche veniamo da storie e formazioni diverse, ma tutte abbiamo lo stesso obiettivo: porre fine al dominio della Repubblica islamica, e per questo “lavoriamo” insieme. Tra di noi ci sono donne di 70 anni che rispettiamo come madri. E sei ragazze che hanno meno di 25 anni che amiamo come figlie. Siamo famiglia».

Il premio Nobel per la Pace 2023 conclude dicendo: «È importante che il mondo veda e riconosca la nostra lotta e i cambiamenti nella società iraniana. Mi aspetto che i governi stranieri e l’opinione pubblica globale garantiscano i diritti umani e il processo di democrazia in Iran».