Nel corso del 2021 l’economia italiana ha messo a segno un importante rimbalzo (+6,6%), che ha dato i suoi frutti anche nell’anno in corso: alla fine del secondo trimestre, la crescita acquisita è, infatti, arrivata al +3,4%. E c’è da sperare che possa resistere a quelle “nuove all’orizzonte” di cui aveva parlato Mario Draghi a inizio mese durante la conferenza stampa seguita all’approvazione del Decreto aiuti-bis e che il presidente del Consiglio ha ricordato ieri a Rimini: il rallentamento in atto a livello internazionale, il rialzo dei tassi di interesse, il costo dell’energia che non si ferma, spingendo a sua volta in alto l’inflazione. Ne abbiamo parlato con Giancarlo Blangiardo, Presidente dell’Istat, oggi ospite del Meeting per l’amicizia fra i popoli in un incontro dal titolo “Crisi o ripresa: quali le chiavi dello sviluppo?”.
Nelle “Prospettive per l’economia italiana 2022-23” di giugno l’Istat segnalava che “le prospettive per i prossimi mesi sono caratterizzate da elevati rischi al ribasso quali ulteriori incrementi nel sistema dei prezzi, una flessione del commercio internazionale e l’aumento dei tassi di interesse. Anche le aspettative di famiglie e imprese potrebbero subire un significativo peggioramento”. Sembra che in effetti si stia andando in questa direzione…
Credo non si debba ragionare esclusivamente sul bicchiere mezzo vuoto. Dal punto di vista economico, infatti, qualche buon risultato a tutt’oggi il nostro Paese l’ha raggiunto. La prossima settimana avremo il dato definitivo, ma già ora si può legittimamente affermare che da noi la stima sul Pil del secondo trimestre (+1%) è risultata superiore alla media dell’Eurozona (+0,6%), grazie soprattutto al contributo dei servizi e nonostante la produzione industriale abbia rallentato. Certo non mancano segnali che destano preoccupazione, ma ci sono anche alcune indicazioni di tendenza che, nel complesso, non sono così sfavorevoli. Soprattutto se raffrontate con il contesto internazionale, dove – non dimentichiamolo – gli Stati Uniti sono entrati in recessione tecnica e la stessa Germania vi si sta avvicinando. Abbiamo tanti motivi per piangerci addosso, ma qualche volta dobbiamo anche riconoscere che qualcosa di buono, per di più in condizioni difficili, siamo in grado di farlo e lo abbiamo fatto. Guardiamo, ad esempio, il mercato del lavoro.
Gli ultimi dati, in effetti, sono stati positivi.
Dopo il duro colpo della pandemia, c’è stata un’importante ripresa e a giugno 2022 il tasso di occupazione (60,1%) è arrivato ai massimi dal 1977, con una diminuzione della disoccupazione e dell’inattività e un aumento dei dipendenti permanenti (+116.000 unità). Le prospettive per i prossimi mesi non sono brillantissime, ma in generale il mercato del lavoro sembra reggere.
A proposito di mercato del lavoro, come il declino demografico in corso influenzerà la diminuzione della popolazione in età di lavoro nei prossimi 20 anni?
Recentemente Istat ha aggiornato le previsioni sulla popolazione che arrivano fino al 2070. Complessivamente, dagli attuali poco meno di 59 milioni di abitanti si arriva, alla fine dell’arco previsionale, a poco più di 47 milioni. Naturalmente, ciò comporterà un impatto importante anche sulla forza lavoro. Si tratta di capire cosa significherà concretamente e come si potrà governare questo tipo di cambiamento, anche tramite innovazioni tecnologiche e dei processi produttivi.
Qual è il contributo che può offrire l’immigrazione? E a che condizioni?
Le previsioni di cui ho parlato sono state realizzate immaginando un saldo netto migratorio medio di 130.000 unità l’anno. La mia opinione – da demografo che si è occupato per anni di immigrazione – è che è non si può pensare di compensare l’intero calo della popolazione con altrettanta immigrazione: in tal senso sarebbe necessario, mediamente, un ulteriore saldo netto migratorio positivo di circa 240.000 unità. Si arriverebbe quindi a 370.000 ingressi medi ogni anno, ma penso che questi numeri non ci consentirebbero di offrire a tutti concrete possibilità di integrazione, comprensive dei servizi irrinunciabili. L’immigrazione può quindi svolgere un ruolo importante, ma deve essere un’immigrazione governata e integrabile. Che consenta di rispondere ai bisogni, quantitativi e qualitativi, del mercato del lavoro e delle imprese, ma sia anche pienamente assimilabile nel sistema produttivo e sociale del Paese.
Quanto il calo della natalità influenza il modello di crescita economica? E viceversa: quanto la situazione economica non florida ferma la natalità?
La debolezza del sistema economico e della società, i problemi del vivere quotidiano, sono un disincentivo alla natalità, che agisce in maniera perversa non tanto nella rinuncia, quanto nel rinvio dei progetti di genitorialità. Questo lo abbiamo visto in maniera molto chiara nella fase più acuta della pandemia: c’è stato chi, di fronte alle incertezze sotto il profilo sanitario ed economico, ha semplicemente sospeso e rinviato la decisione di avere figli. D’altro canto va preso atto che una popolazione che non si sviluppa con vitalità è anche meno dinamica, e ha quindi una minor capacità di produrre occasioni di crescita dei redditi. Uno degli elementi chiave del sistema economico è la domanda, che è sollecitata anche da una fase di sviluppo all’interno dei processi del ciclo familiare: pensiamo, banalmente, a tutti gli acquisti che seguono la nascita di un bambino. Crescita demografica vuol dire crescita della domanda, implica una visione di investimento nel futuro, uno sforzo nel cercare di essere produttivi e di offrire una maggior quantità di beni e servizi per rispondere ai bisogni crescenti della popolazione.
Attualmente, quali sono le prospettive sulla natalità?
I dati dei primi cinque mesi dell’anno segnano un 4,5% in meno di nati rispetto allo stesso periodo del 2021; un anno che, non dimentichiamolo, è stato quello delle 399 mila nascite, un nuovo minimo storico per il nostro Paese. Il rischio per il 2022 è di chiudere il bilancio, se la tendenza non cambia, con 380 mila nati: un ulteriore drammatico record di minimo!
Quanto è realistica la possibilità di recuperare un nucleo consistente di nuove nascite?
Il punto delicato è che a tale scopo non è sufficiente aumentare la propensione a fare figli: il così detto “livello di fecondità”. Attualmente il numero medio di figli per donna nel nostro Paese è pari a 1,2. Ben lontano da quella soglia di due figli in media che ci vorrebbe per garantire il semplice ricambio generazionale. In Istat, nel proporre gli scenari previsivi, abbiamo simulato gli effetti di ipotetiche variazioni in aumento della fecondità. Immaginando che si possa salire, progressivamente nei prossimi 50 anni, dagli attuali 1,2 a 1,5 figli per donna si rileva che il numero annuo di nascite si stabilizzerebbe attorno alle 350 mila unità: circa 50 mila meno di quelle registrate lo scorso anno. Ma se anche si raggiungessero 1,9 figli per donna – obiettivo ambizioso e al momento poco realistico – si arriverebbe in ogni caso a oscillare attorno a circa mezzo milione di nati annui.
Insomma, anche aumentando il numero di figli per donna non si otterrebbero grandi cambiamenti…
Esatto, la spiegazione è che non basta aumentare la fecondità, ci vogliono anche le mamme per concretizzare tale aumento. Guardando sempre alle previsioni demografiche, il numero totale di donne in età fertile – convenzionalmente tra 15 e 50 anni – passa dagli 11,8 milioni attuali a 7,9 milioni nell’arco dei prossimi 50 anni. È evidente, quindi, che se viene meno un terzo delle potenziali madri, per quanto possa crescere la propensione individuale a far figli, non si possono avere più di tanti nuovi nati.
Sembra davvero impossibile poter invertire il trend demografico del nostro Paese.
Per poter invertire il trend bisognerebbe anzitutto non aspettare 50 anni per vedere il tasso di fecondità avvicinarsi a 2: è necessario cercare di creare le condizioni perché questo avvenga prima, nell’arco di 10, massimo 20 anni. È fondamentale che ci sia una maggior attenzione, un maggior sostegno sul fronte della natalità da parte di tutti: il pubblico, ma anche il privato sociale, le imprese, i singoli cittadini. Occorre innanzitutto evitare l’illusione che tramite l’immigrazione – di cui non si nega l’importante contributo anche da questo punto di vista – sia possibile compensare la discesa delle nuove nascite.
Non è così?
I dati lo dimostrano in maniera incontestabile: i nati stranieri hanno raggiunto le 80.000 unità nel 2012 e oggi sono già scesi a circa 60.000, pur essendo cresciuta nel frattempo la popolazione straniera di oltre un milione di unità. Vuol dire che la componente straniera, anche per le difficoltà di ordine economico, non può garantire un contributo significativamente adeguato al contrasto della denatalità nel suo complesso.
Probabilmente, legato a questo problema, c’è anche quello di donne e giovani che restano le categorie più penalizzate sul mercato del lavoro. Gli incentivi alle assunzioni sembrano non funzionare. Cosa occorre?
Il problema è che non manca il lavoro in quanto tale, manca quello di buona qualità. C’è una situazione di carattere normativo e contributivo che, a mio parere, rende in qualche modo “conveniente”, per le imprese, il lavoro precario, specie se si tratta di soggetti alle prime armi. Credo invece che si potrebbero immaginare alcuni meccanismi che, progressivamente, favoriscano l’assunzione a tempo indeterminato dopo una fase di prova/verifica delle capacità, adeguata al tipo di funzioni da svolgere. Si tratterebbe di concordare un iter di accompagnamento alla stabilità che sia conveniente per entrambe le parti. Il neo assunto dovrebbe risultare a costo ridotto (incentivato) nella fase iniziale di inserimento, ma poi progressivamente dovrebbe diventare penalizzante per l’impresa “liberarsene”. Questo dovrebbe valere in particolare per i giovani, senza per altro dimenticare che oggi sono “giovani precari” anche numerosi 30-40enni con percorsi lavorativi discontinui e spesso “accidentati”. Al tempo stesso andrebbero risolti anche i ricorrenti casi di part-time involontario, che spesso riguarda in modo particolare le donne.
Visto il trend dell’inflazione di quest’anno dobbiamo aspettarci un aumento della povertà assoluta?
In realtà quando verrà realizzato il Report relativo al 2022 ci sarà una nuova soglia di povertà assoluta che sarà aggiornata in base alla variazione del costo della vita. Peraltro stiamo anche rivedendo il calcolo delle soglie per renderle più aderenti alle necessità del nostro tempo. In linea di principio non ci dovrebbe essere un aumento significativo “da inflazione” del numero di famiglie sotto soglia. Però non dimentichiamoci che, verosimilmente, con un’inflazione che corre si accresceranno ulteriormente le disuguaglianze tra ricchi e poveri, perché questa inflazione penalizza proprio i meno abbienti.
In che modo?
Perché sono aumentati di più i prezzi di quei beni che pesano maggiormente nel paniere delle famiglie che appartengono al primo quintile nella distribuzione dei redditi, ossia quelle che identificano il 20% più povero. Come abbiamo segnalato nel report sull’andamento dei prezzi di giugno, “nel secondo trimestre 2022 l’impatto dell’inflazione, misurata dall’Indice dei prezzi al consumo armonizzato (IPCA), è più ampio sulle famiglie con minore capacità di spesa rispetto a quelle con livelli di spesa più elevati (+9,8% e +6,1% rispettivamente)”. Come si vede, quindi, ci sono ben 3,7 punti percentuali di differenza nel costo della vita tra i più poveri e i più abbienti. È chiaro che ciò accentua le disuguaglianze già esistenti.
Pensando al titolo dell’incontro del Meeting a cui partecipa, quali sono secondo lei le chiavi dello sviluppo?
Credo che servano persone motivate, che si mettono in sintonia tra di loro e che insieme, consapevoli dei sacrifici che si rendono necessari, concepiscono un comune obiettivo: migliorare la qualità della vita di tutti noi. Sembrano solo belle parole, ma se pensiamo all’Italia del miracolo economico del dopoguerra ci rendiamo conto che dietro a quell’episodio di successo c’era, non a caso, tutto un Paese ben determinato a costruire il proprio sviluppo. C’era una popolazione che guardava avanti; con una aspettativa media di vita – anni pro-capite ancora da vivere (ai pur bassi livelli di sopravvivenza di allora) – che era superiore agli anni mediamente già vissuti (l’età media). Una popolazione demograficamente giovane e vivace, che era proiettata all’investimento per la costruzione del proprio futuro. Oggigiorno la situazione sul fronte demografico appare invertita: l’età media dei residenti (46 anni) è superiore alla media della loro aspettativa di vita (38 anni). Dunque la strada mediamente percorsa supera quella che ancora resta da percorrere, ma questo non deve spingerci a programmare un futuro di semplice manutenzione. Dobbiamo invece spingerci all’investimento. Solo valorizzando pienamente quelle esperienze e competenze che tipicamente contraddistinguono un popolo “maturo” sapremo muovere le leve dello sviluppo. Dovremmo – e sono convinto che possiamo anche farlo – recuperare quel senso di vitalità, oserei parlare di un ringiovanimento alimentato dalla conoscenza, che ci aiuterebbe a costruire e a rilanciare un progetto di futuro. Se sapremo generare un clima di fiducia che, a partire da chi ci è prossimo, sappia arrivare a contaminare le stesse istituzioni, riscopriremo il piacere di poterci ritenere, non solo i beneficiari, ma soprattutto i veri artefici di un nuovo modello di sviluppo.
(Lorenzo Torrisi)
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