In città spesso un funerale è solo interruzione del traffico. In paese può anche apparire una sorta d’intrattenimento: “Alla fine ci mettono un po’ di terra sulla testa – scrive B. Pascal -: eccoci sistemati per sempre”. Le volte che non accade, però, qualcosa sembra incepparsi: da funebre la notizia rischia di farsi macabra, lambendo la pazzia.
Nel padovano, è notizia di questi giorni, un figlio ha tenuto nascosto per mesi il cadavere della mamma e dello zio per continuare ad usufruire della pensione. Scoperto, la diagnosi è una staffilata: “Finché erano in vita nessuno si preoccupava di me – racconta ai compagni d’ospedale -. Ora che sono morti mi vengono a cercare, tutti a caccia di soldi”. Monete e funerale, morte ed eredità, memoria e oblio. Forse un morso di sentite condoglianze.
Nessuno, però, saprà mai cosa realmente nasconda quell’apparente gesto di negata pietà per i morti. La velocità di mandare in soffitta ciò che ci turba fa sì che lo bolliamo come il gesto di un malato, di uno che non sa stare al mondo. Succede così quando si è costretti a fare i conti con il male: la sua identità è così irritante che è meglio esiliarla con la prima scusa a disposizione. Il male, invece, qualsiasi sia la veste con la quale s’annuncia, è sempre l’epilogo di un lungo percorso che, come una matassa, è difficile da sbrogliare. Nessun gesto di malvagità ha una discolpa che lo giustifichi; ogni gesto di male, però, ha una genesi che lo concepisce. Il nostro giornale ha descritto la storia di quell’uomo come la “storia di un fantasma in un paese fantasma. Tutti lo guardavano ma nessuno lo vedeva veramente”. Nessun sguardo, prima, a sua disposizione. O pochi sguardi, forse insufficienti: per ricordargli chi fosse, da dove venisse, dove stesse andando. Tanti sguardi, adesso, tutti addosso: a chiedergli “perché”, per condannarlo alla sua colpa, a rinfacciargli quant’è macabra la sventatezza.
Chi è abituato ad affrontare il male, maneggiandone le tracce che lascia, sa bene che nessun bene sarà mai possibile vedere sorgere da quelle ceneri senz’avere faticato nel ricercare un perché, dando un nome a quell’anticipo d’illogicità.
Seppellire i morti è opera di misericordia corporale. È gesto umano d’alta pietà: quando manca, come in questi giorni, sembra manchi quel qualcosa che rende un corpo di più della somma delle singole parti. Nel funerale – è una delle immagini più consistenti di Antoine Saint-Exupéry – non si tratta di sistemare un corpo nella terra, bensì “di raccogliere, senza perdere nulla, il patrimonio del quale l’uomo era stato ereditario. È difficile salvare tutto, l’eredità dei morti si coglie lentamente”.
Per questo, in ogni paese, c’è un camposanto: per andarli poi a piangere, per meditare sulla loro esistenza, per celebrare l’anniversario di morte. È necessario voltarsi molte volte per controllare di non aver perso nulla. Quel cranio scheletrico è la vera eredità di un morto, il forziere che fu carico di tantissime meraviglie. Il cui valore supera la somma delle pensioni accumulate.