Carissimi,
ha fatto scalpore, qualche settimana fa, la proposta di una Commissione  europea di sostituire – nel formulare gli auguri – l’espressione “Buon Natale” con quella generica di “buone feste” e questo – veniva così spiegato – per non offendere la sensibilità di coloro che non si riconoscono nei valori della tradizione cristiana. Ora, l’evidente superficialità e pretestuosità di una simile proposta, stigmatizzata da molte autorevoli personalità – compreso papa Francesco – ha fatto sì che la Commissione abbia ben presto fatto marcia indietro, ritirando una tale a dir poco “fantasiosa” iniziativa.   



Chiarito questo, è pur vero che lo “scivolone” della Ue su tale questione offre tuttavia lo spunto per un’ulteriore, più profonda riflessione. Quanti tra noi, cristiani della “vecchia” Europa e perfino del nostro paese, nell’augurare “Buon Natale” hanno coscienza del vero e originario motivo per il quale si usa una tale espressione? Quanti di noi, pur continuando a dire “Buon Natale”, in realtà lo usano come equivalente di un generico “buone feste”?



Non vogliamo assolutamente, ponendo questo interrogativo, rimproverare nessuno, né tantomeno pretendere di “leggere” nella coscienza delle persone per misurarne la fede. Tuttavia, il problema è reale e non può lasciarci tranquillamente indifferenti. Viviamo in un “cambiamento d’epoca”, come più volte ha detto papa Francesco, ma spesso molti tra noi non ne hanno piena coscienza e il rischio è che, pur continuando ad usare parole cristiane, compiere gesti cristiani, appellarsi a valori cristiani – nella logica del “si è sempre fatto così” – questa tradizione risulti a molti sempre più vuota di contenuto e di esperienza reale, soprattutto fra i giovani: in modo tale che tra qualche decennio –  ma forse anche meno – un giorno potremmo svegliarci accorgendoci amaramente che il banale augurio di “buone feste” ha definitivamente sostituito quello natalizio, memoria dell’unico evento che ha veramente dato senso e speranza al cammino umano: l’incarnazione di Dio nel suo Figlio Gesù Cristo.



Come Chiesa, e ognuno di noi come cristiano, abbiamo ricevuto un grande dono e, allo stesso tempo, una grande responsabilità. Un tesoro non solo da conservare, ma – come ci ammonisce Gesù nel Vangelo, attraverso la parabola dei talenti – da far fruttificare. È anche per favorire questo che papa Francesco, seguito dai Vescovi italiani, ha deciso di intraprendere un “cammino sinodale”, ovvero di stimolare tutta la Chiesa e i suoi fedeli a mettersi insieme in cammino, in un “movimento creativo” per rispondere più adeguatamente alle nuove sfide di questa nostra epoca così complessa. Che cosa desidera da noi il Santo Padre? Riprendendo alcune espressioni da lui usate in questi ultimi mesi, potremmo evidenziare alcuni aspetti di quella vita ecclesiale che il Papa si attende quale frutto di questo camminare insieme:

Una Chiesa che si avvicina all’altro

– “La Chiesa non è una fortezza, non è un potentato, un castello situato in alto che guarda il mondo con distanza e sufficienza. La Chiesa è la comunità che desidera attirare a Cristo con la gioia del Vangelo è il lievito che fa fermentare il Regno dell’amore e della pace dentro la pasta del mondo”.

– “Una Chiesa umile che non si separa dal mondo e non guarda con distacco la vita, ma la abita dentro. Abitare dentro, non dimentichiamolo: condividere, camminare insieme, accogliere le domande e le attese della gente. Il centro della Chiesa non è sé stessa. Usciamo dalla preoccupazione eccessiva per noi stessi, per le nostre strutture, per come la società ci guarda”. 

Una Chiesa che sa ascoltare

– Anzitutto lo Spirito, nell’adorazione e nella preghiera: “Un tempo per dare spazio alla preghiera, all’adorazione – questa preghiera che noi trascuriamo tanto: adorare, dare spazio all’adorazione –, a quello che lo Spirito vuole dire alla Chiesa”, dando ad esse la precedenza sulle nostre ansie e organizzazioni pastorali”. 

– E quindi i fratelli e le sorelle: “rivolgersi al volto e alla parola dell’altro, incontrarci a tu per tu, lasciarci toccare dalle domande delle sorelle e dei fratelli, aiutarci affinché la diversità di carismi, vocazioni e ministeri ci arricchisca”. 

Una Chiesa della compassione e della tenerezza

– “Torniamo sempre allo stile di Dio: lo stile di Dio è vicinanza, compassione e tenerezza. Dio sempre ha operato così. Se noi non arriveremo a questa Chiesa della vicinanza con atteggiamenti di compassione e tenerezza, non saremo la Chiesa del Signore. E questo non solo a parole, ma con la presenza, così che si stabiliscano maggiori legami di amicizia con la società e il mondo: una Chiesa che non si separa dalla vita, ma si fa carico delle fragilità e delle povertà del nostro tempo, curando le ferite e risanando i cuori affranti con il balsamo di Dio”.

– “Nessuno si senta schiacciato. Ognuno possa scoprire la libertà del Vangelo, entrando gradualmente nel rapporto con Dio, con la fiducia di chi sa che, davanti a Lui, può portare la propria storia e le proprie ferite senza paura, senza finzioni, senza preoccuparsi di difendere la propria immagine. L’annuncio del Vangelo sia liberante, mai opprimente. E la Chiesa sia segno di libertà e di accoglienza!”.

Una Chiesa dell’incontro e del dialogo

– “Incontrare i volti, incrociare gli sguardi, condividere la storia di ciascuno: ecco la vicinanza di Gesù. Egli sa che un incontro può cambiare la vita. E il Vangelo è costellato di incontri con Cristo che risollevano e guariscono. Anche noi, che iniziamo questo cammino, siamo chiamati a diventare esperti nell’arte dell’incontro”.

– “Mi raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la pensa come voi. Permettete a tutti di entrare. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza”. Una Chiesa “che sa dialogare con il mondo, con chi confessa Cristo senza essere ‘dei nostri’, con chi vive la fatica di una ricerca religiosa, anche con chi non crede. Non è selettiva di un gruppetto, no, dialoga con tutti”. 

Carissimi, Dio che “esce” dall’eternità del suo Mistero trinitario per “entrare” nel tempo, nella nostra condizione umana, e così camminare con noi, costituisce la prima ed esemplare immagine di cosa significhi condividere la vita dell’altro, senza timore di entrare nel suo limite e nella sua povertà. Come ci ricorda questa splendida pagina del grande teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, giustiziato – per la sua opposizione al regime nazista – in un campo di concentramento tedesco all’alba del 9 aprile 1945: “Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro (…) Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono ‘perduto’ lì egli dice ‘salvato’; dove gli uomini dicono ‘no’, lì egli dice ‘sì’.

Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente e incomparabile. Dove gli uomini dicono ‘spregevole’, lì Dio esclama ‘beato’. Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima.Lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia”.

Per questo il Natale è una “buona notizia”, la più straordinaria, consolante, inattesa – per quanto corrispondente al cuore – notizia, che la storia abbia mai ricevuto: Dio si è coinvolto con noi, mostrandoci visibilmente il suo amore e la sua tenerezza misericordiosa, riaprendo ad ognuno prospettive di speranza nell’oggi e per l’eternità. Per questo, possiamo davvero tutti rallegrarci, come ci ricorda il grande Papa San Leone Magno:

Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c’è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita.