“Te voria bambin scaldare / per amor con lo mio fiato. / Voglio stare ingenochiato / tra il bo e l’asinello / e a te dolce bambin bello / basarò quelli pedini. / Lo tuo odor santo e divino / me farà tutto infiammato…”.

Con tocchi di caloroso slancio emotivo i versi del Thesauro de la sapienza evangelica invitano il lettore devoto a immergersi nella scena natalizia del presepe ricreandola con la fantasia nello spazio della propria memoria, sostenuti dai più vibranti sentimenti del cuore. Il bisogno di realismo qui si fa diretta compartecipazione. Non basta immaginare, mettere in moto la visionarietà religiosa: si tratta di spingere di nuovo all’azione i protagonisti del racconto sacro, di riattualizzarlo nel presente riproducendone gli effetti come se si fosse di fronte al primo accadere del fatto rievocato. Invece di fermarsi a guardare come spettatori, si può tentare di schierarsi al fianco degli attori coinvolti, ci si mette in grado di imitarne le movenze, di fare proprie le loro parole e i loro stati d’animo, rivivendo in prima persona quanto essi stessi avevano avuto modo di sperimentare, fino ad arrivare a sostituirsi alla posizione da loro occupata e al ruolo da loro svolto.



Il registro della tenerezza materna, più ancora di quello della dolcezza paterna, è uno dei poli dominanti dei componimenti raccolti nella miscellanea dei primi anni del Cinquecento che abbiamo citato. Il prodigio della fecondità corredentrice di Maria vi è ripercorso in tutta la sua terrestre parabola, dal momento del primo accendersi fino alla glorificazione della nascita che si manifesta al mondo e preannuncia quanto vi dovrà fare seguito anche a costo di dolore e sacrificio.



Si rievocano il mistero dell’annunciazione, poi l’attesa trepidante del bimbo custodito nel grembo, l’approssimarsi alle incognite del parto, il ricovero di fortuna nella grotta di Betlemme, la folla radunatasi festante per rendere omaggio al Salvatore. La contemplazione del divino bambino nelle braccia della madre che lo accudisce stringendoselo al petto e nutrendolo con il dono del latte copioso è un refrain che traduce uno dei topoi più fortunati del castello di dottrine della teologia e delle iconografie di supporto dell’arte sacra. La grandezza di Maria che viene celebrata si lega alla perfetta condivisione del destino di ogni semplice madre, nel solco di un principio dell’incarnazione che non teme di calarsi nella più esplicita materialità delle sue conseguenze anche puramente fisiologiche. L’insieme delle cure premurose prestate dalla Vergine e, in particolare, il gesto del suo allattamento sono assunti come il vertice di una misericordia che si fonde con il temperamento sublime della Madre di Dio e si offre come il paradigma di una eccellenza da imitare, invidiabile come meta, norma ideale da invocare in quanto traguardo di una commossa volontà di piena immedesimazione:



“Liquefar sentivi el core / sì somersa in tal dolcezza. / Davi el latte a quel Signore / con materna tenerezza, / con gran gaudio, et allegrezza / lo basiavi con amore. / Non è cor di tanta altezza / che potesse mai pensare, / o Maria, la tua dolcezza / a veder Idio poppare, / de tuo latte satiare / lo tuo figlio e creatore…”.

Esagerazioni di una pietà sdolcinata ed evasiva di altri tempi? Prima di formulare sentenze, bisognerebbe rendersi conto che questo genere di approcci assecondava l’orientamento tipico di una fede chiamata a riscattare la realtà del mondo umano nella globalità dei suoi fattori costitutivi. Lo stesso Thesauro de la sapienza evangelica ha goduto per tutto il Cinquecento, e poi ancora oltre, di una fortuna dai contorni eccezionali: segno della sua aderenza a una mentalità che dilagava ovunque in modo capillare attraverso le parole, le immagini, i testi.

Ideata nel monastero delle clarisse osservanti del Corpus Domini di Bologna, fondato dalla nobile e colta Caterina Vigri alla metà del XV secolo, la raccolta di poesie devote fu presto pubblicata nella città di origine prendendo il titolo di Devotissime composizioni rhytmice. La sua più antica edizione superstite datata risale al 1525. La si ristampò a Bologna più volte in seguito, e partendo da Bologna il testo finì con l’attirare l’attenzione delle tipografie del centro più eminente del mercato librario nell’Italia del tempo, cioè Venezia. Qui la miscellanea devota conobbe nuove edizioni con varianti e adattamenti, a cominciare dalla trasformazione del titolo, corretto introducendovi la formula invitante del “tesoro” evangelico. Con il titolo modificato, il testo vide la luce anche a Milano. Vi fu riproposto nel 1568, e con altre aggiunte ancora tornò a essere rimesso in circolazione a Venezia almeno nel 1588.

Anche un tale successo fuori dal comune si spiega con le categorie dell’annuncio cristiano fondamentale: “E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi”. Il senso della presenza incombente del divino, il legame di familiarità con la grandezza dell’Infinito che discende nelle angustie del finito facendosi incontrare nella fisicità dei segni che lo rivelano hanno sempre avuto bisogno di ancorarsi al coinvolgimento del cuore: più la mistica si fa sensibile, percettiva, più trascina con sé la logica dell’implicazione affettiva, la spinta a lasciarsi abbracciare nel vincolo dell’unità che ricongiunge gli estremi.

Nella storia della pietà cristiana, tutto ciò è diventato esperienza resa permanente nel tempo. E l’esperienza vissuta ha generato la necessità di esprimersi per potersi comunicare ed essere condivisa. Le parole sono state ricavate dalla realtà dell’esistenza dell’uomo nel mondo. Sul modo in cui essa si struttura si è modellato un linguaggio potentemente simbolico, che ha fatto della dialettica delle relazioni e degli affetti umani lo specchio in cui si rifrange il mistero inesauribile del sacro.

A tale realismo di fondo ha contribuito in modo decisivo l’invenzione poetica. Perché la poesia è l’arte della parola che si concentra sull’essenziale, e per fare questo innalza i toni, enfatizza gli accenti e i dettagli cruciali. Si fissa in un ritmo e si distende in una metrica di suoni concatenati, costruita non su una scala di note, ma su una sequela di discorso che si rende il più possibile toccante, persuasivo. La parentela tra la poesia e la musica è d’altra parte rimasta solida fin dalle origini: sta qui il motivo per cui la poesia non si concepiva soltanto per essere letta in silenzio da un fruitore isolato, ma anche per essere declamata in pubblico. La si recitava coralmente e spesso si prestava al travaso immediato nel canto, sul filo di melodie adattabili a riusi differenziati. L’“utile” dei contenuti veicolati si mescolava al “dolce” di un apprendere a partire dalla pratica sperimentata.

Dopo l’invenzione della stampa, l’offerta delle composizioni di rime a tema religioso divenne un fiume inarrestabile. La marea crescente dei prodotti tipografici rivoluzionò la catechesi e la predicazione. Invase le celle dei monaci e delle religiose. Raggiunse l’élite dei laici istruiti e si infiltrò negli esercizi di pietà dei gruppi devoti, delle confraternite, di chiunque aspirasse, chierico o secolare che fosse, alla santificazione della vita. Le tradizioni del culto liturgico e il paradigma supremo delle scritture bibliche (pensiamo al tesoro quanto mai fecondo del libro dei salmi) continuarono a rifornire con i loro codici autorevoli la tessitura dei nuovi ordini di discorso.

Su questo tronco robusto si innestarono gli sviluppi generati dalla fioritura medievale, culminati nell’esplosione della poesia devota in lingua volgare che, nell’ambito italiano, trovò nella scuola francescana, in Iacopone da Todi e nella straordinaria fortuna del canto delle laudi i suoi vertici di manifestazione più riuscita. Con il passaggio ai fermenti di rinnovamento dell’età moderna, tutti questi retaggi preziosi furono rilanciati in vista delle esigenze imposte dai tempi mutati, e a essi si intrecciarono i filoni di creatività alimentati da protagonisti che presero a ripercorrere le strade di chi li aveva preceduti secoli prima: i padri della Compagnia di Gesù, i seguaci di Filippo Neri, altre figure di uomini di fede capaci di spendere le loro doti di artisti della parola in vista della grande opera di disseminazione dello spirito cristiano e di educazione del popolo dei credenti.

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