“Con la Tua mano carezzando Maria, Tu reggevi il mondo e gli davi vita. E a me già pensavi”. Di questo amore tenero e forte abbiamo urgente bisogno, dice al Sussidiario Angelo Scola, 82 anni, cardinale arcivescovo emerito di Milano, dal suo ritiro di Imberido.
Nelle sue parole c’è poca di quella “sensibilità un po’ crepuscolare” che pure “connota noi lacustri”, si scorge invece una grande certezza. Dio che si fa carne è la più grande novità di tutte. Ma “la novità non si prescrive attraverso norme, accade”. E “il Salvatore viene come la rugiada a placare la sete della terra arida e la feconda, facendovi rifluire la vita”.
Eminenza, questo Natale arriva in un mondo inimmaginabile fino a due anni fa, nonostante già allora si parlasse di “crisi”. Le guerre si susseguono, ci sono fronti nei quali muoiono centinaia di persone al giorno. È come se le promesse di un intero ventennio e più fossero state destabilizzate e smentite. Che cosa abbiamo sbagliato, che cosa non ha funzionato?
L’onda lunga dell’ottimismo razionalista si è esaurita. L’esaltazione del crollo del muro di Berlino dell’89 si è spenta. Sono stati alzati altri “muri” più resistenti e divisivi. In un certo senso la globalizzazione ha rinfocolato gli egoismi di Stati, di popoli, di etnie. La fiducia nello tecno-scienza si è profondamente incrinata: il re del nuovo umanesimo si è rivelato nudo. E smarrito. Ma non possiamo piangerci addosso, né fermarci ad analizzare ciò che non ha funzionato. Grazie a Dio, anche nelle situazioni più drammatiche – pensiamo alla “terza guerra mondiale a pezzi”, come la chiama il Papa –, con il loro impressionante carico di morti, non manca la vitalità della testimonianza. Mi viene in mente il cardinal Pizzaballa, nella martoriata Terra Santa, o il vicario dell’Arabia meridionale, mons. Martinelli, insieme alle decine e decine di sacerdoti, di religiosi e di laici, testimoni della vittoria di Cristo, talora fino all’effusione del sangue.
E che promessa ci offre la venuta di Gesù Bambino? A proposito: è solo una promessa?
“Cito veniet salus tua” (“viene presto la tua salvezza”) ci fa cantare il Rorate, l’Inno d’Avvento che ho imparato in Gioventù Studentesca, dai primi anni 60, facendoci scoprire nell’avvenimento di Cristo il compiersi della promessa o, meglio, la certezza di una speranza affidabile per la nostra vita, incontrata e verificata nell’esperienza in un di più di umanità. Oggi, in una situazione connotata da un’escalation di violenza, il moltiplicarsi di segni di costruttività personale e comunitaria rappresenta una importante caparra di salvezza, qui ed ora, per ogni donna e uomo di questo nostro tempo così travagliato e tentato di disperazione. La venuta di Cristo non è solo promessa, è solida certezza.
Il Natale è l’avvenimento storico in cui Dio stesso rimette al centro l’uomo, l’uomo reale, concreto. Che cosa sta imparando lei, in questi anni, dall’abbraccio di Cristo alla sua umanità?
Quella del vecchio Simeone è per me una figura sempre più affascinante. Gli anni della vecchiaia potrebbero essere quelli del disincanto e invece sono chiamati ad essere quelli della semplicità e della gratitudine. Mi affiorano alla memoria le parole del canto di un giovane di cinquant’anni anni fa, Vorrei essere un frate che, rievocando gli ultimi tempi della vita di un vecchio monaco, si chiude con questa intuizione: “aver la vita dietro, l’eternità davanti”.
Quasi un anno fa moriva Benedetto XVI. Nel 2005, in Dogma e predicazione, faceva questa osservazione riferita alla Germania dei primi anni 70: “La crisi della predicazione cristiana (…) dipende in non piccola parte dal fatto che le risposte cristiane hanno trascurato gli interrogativi dell’uomo; esse erano giuste e continuano a rimanere tali, però non ebbero influenza in quanto non partirono dal problema e non furono sviluppate all’interno di esso”. Secondo lei a che punto siamo con la sfida della trasmissione della fede?
È un’osservazione di impressionante portata profetica. A distanza di quasi vent’anni è più attuale che mai. L’eredità teologica lasciataci da Joseph Ratzinger è destinata a non esaurirsi facilmente: la storia ce la consegnerà sempre più nitidamente come quella di un Padre della Chiesa. Direi che, rispetto all’inizio del suo Pontificato, la sfida è oggi ancora più ardua, ma non meno affascinante. Cosa esiste di più affascinante per il cristiano che annunciare Gesù, nostro Salvatore?
Uno dei personaggi più significativi dell’Avvento è Giovanni il Battista. Tutta la sua vita è stata una sorta di “indice puntato” verso Cristo facendosi da parte perché un Altro potesse emergere. L’uomo, invece, spesso è preso dalla smania di occupare tutta la scena nelle cose che fa. Dopo aver lasciato gli importanti compiti che ha svolto nella sua vita, cosa l’ha aiutata a “ridimensionarla”? Come ha sorpreso il gusto per l’essenziale?
Nel volume-testamento che ho scritto al termine del mio ministero episcopale, Ho scommesso sulla libertà, ho parlato di una sensibilità un po’ “crepuscolare” che spesso connota noi lacustri. Riconosco che la tentazione per un lombardo purosangue come me che ha ereditato dai suoi padri, di umili origini, la passione per il lavoro e il senso della vita come compito, con una forte propensione a “mettere le mani in pasta” nella realtà, è essenziale non perdere tempo, neanche nell’inattività forzata che l’avanzare degli anni ti chiede. Capisco che allora la tentazione di un ripiegamento su di sé è sempre in agguato, mentre occorre vigilare per trasformarla in povertà di spirito e in docile abbandono. Insomma per volgere il sempre incombente negativo in positivo: in quel gusto per l’essenziale che fa brillare più luminosamente le cose che contano veramente.
Siamo nel tempo di una “fluidità” ribadita ad ogni pie’ sospinto. Di recente è uscito il suo ultimo libro, L’evidenza del corpo. Che cosa rende possibile un vero dialogo con l’uomo di oggi circa la sua natura?
Semplicemente la lealtà verso il dato. Nel nostro corpo, per esempio, fino all’ultima cellula, è iscritta l’identità sessuale che lo caratterizza. Bisogna partire da qui. Nel titolo del mio ultimo libro ho voluto mettere in risalto proprio la parola evidenza. “Partire dalla cosa in sé”: questo caposaldo del pensiero di Husserl è sempre stato fondamentale nella mia riflessione sull’uomo di oggi.
Nella situazione politica odierna emerge una fragilità di proposta culturale e sociale che spesso si manifesta in una reattività di fronte a ciò che accade. Alcuni si augurano un ritorno alle piazze per ribadire i valori. Altri si disinteressano lasciando fare. Altri ancora sperano di essere efficaci intrallazzando con chi comanda. Cosa può permettere una vera novità di presenza e di proposta?
La novità non si prescrive attraverso norme, ma accade. E là dove accade va seguita, senza calcoli o riserve. Con una generosa disponibilità a rischiare e a pagare di persona. Si chiama, ancora una volta, testimonianza.
L’annuncio del Natale ha avuto storicamente più a che fare con il deserto che con la città. Quali “deserti” lei ha visto fiorire in questi anni, tanto da confermare il metodo di Dio?
Il tema del deserto è centrale nell’Inno di Avvento che abbiamo citato all’inizio: il Salvatore viene come la rugiada a placare la sete della terra arida e la feconda, facendovi rifluire la vita. Le società opulente del Nord del pianeta sono invase da una progressiva desertificazione. Il gelo demografico ne è evidente e triste documentazione. Quelle occidentali sono inesorabilmente società di vecchi. “Senectus enim insanabilis morbus est” (la vecchiaia è in se stessa una malattia insanabile), diceva Seneca. La prima emergenza ecologica viene da qui.
Cosa vorrebbe dirci oggi?
Nel mio augurio di Natale, quest’anno ho scelto una frase di Santa Teresa del Bambin Gesù: “Con la Tua mano carezzando Maria, Tu reggevi il mondo e gli davi vita. E a me già pensavi”. Di questo amore tenero e forte, che raggiunge tutti gli uomini e le donne, in modo assolutamente personale abbiamo urgente bisogno.
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